Scovare buona musica concorre quasi sempre a riscoprirne il senso. A rimescolare emozioni, a viaggiare con la mente, a riconoscere una parte di noi stessi che risuona in un motivo ritrovato. Scovare buona musica consente di scrollarsi di dosso l’effimera natura dei tormentoni del momento, di rispedire all’indietro quel senso di sazietà provocato da una proposta musicale consunta o sterile che rischia di smorzare qualsiasi slancio, reprimendo addirittura gli istinti.
Il sentiero battuto dalla band salernitana Wet Rags – The American Folk Band si snoda esattamente in direzione opposta, conducendo a un paesaggio musicale decisamente affascinante, ricco di trama e quasi spirituale. Un’esperienza musicale che trova, nel susseguirsi di brani country-folk e bluegrass, la propria ragione d’essere e di stupire.
Durante le loro esibizioni, fin dalle prime battute, è la musica a cercarti, a stanarti nel volgere della serata e delle sue molteplici conversazioni. E si tratta, da subito, di un contagio effettivo, irradiato dall’immediata capacità che si richiede a un live: non soltanto cullare l’orecchio educato di qualcuno ma sprigionare le energie nascoste dei più, accattivare i sensi, radunarli in una corale leggerezza dell’anima. Durante l’esibizione dei Wet Rags può capitare che anche le pose più statiche, le gambe più svogliate, i soggetti più inibiti, avvertano un incontinente e sollecito trasporto. E’ il sopravvento del ritmo, una propulsione incontrollabile destinata ad assalire ripetutamente, perpetuandosi nei richiami della notte.
Merito di un repertorio “On the road”, che spazia da Bill Monroe e dai padri del country all’indimenticabile John Denver, poemi, preghiere e promesse che attraversano la provincia di un’America profonda e qualsiasi intimità umana. Una musica a cui si chiede volentieri di condurre verso un altrove che ci appartiene, luoghi della nostra anima e dei nostri sentimenti. Country roads, take me home, to the place I belong. Melodie che sono un richiamo a realtà rurali in cui la musica si miscela alle fatiche liberando ogni energia nel potere salvifico del folk. E’ la loro innata capacità di catapultare nello scenario interpretato, cavalcando un disordine emotivo e creativo che solo un genere musicale come questo può suscitare, ad accompagnare l’ascoltatore. Perché in alcuni brani bluegrass c’è un dolore che va consumato fino in fondo, prima di poterlo convertire in altre condizioni dell’animo.
Il segreto è nell’insieme. In un congresso affiatato di strumenti. Negli assoli alternati, nella capacità di passarsi il testimone, di riflettere e interpretare, senza mancare di originalità, un genere legato alla tradizione popolare. Il batterista Fabio Ciaparrone, padrone del ritmo, inesauribile scossa, è uno dei leader della formazione. Dotato di una tecnica strabiliante, è anche voce e trascinatore. Al centro della scena un fuorilegge pizzica le corde del contrabbasso accompagnando lo sviluppo armonico: la maturità artistica di Mizar Di Muro detta l’andatura, traccia la rotta. E poi la talentuosa chitarra di Ivan Zinicola, capace di attacchi decisivi, di accelerate improvvise, di un galoppo di corde che affianca prima e compete poi con il primato di banjo e violino. Un assortimento che si plasma perfettamente all’opera di un formidabile banjo padrone dell’arpeggio nelle sue insistenti sortite, nelle sue scorribande frenetiche nel cuore della musica. Lo impugna, lo ammaestra, lo sprigiona Davide Fiore, abile a destreggiarsi nel vortice adrenalinico provocato dal suo strumento, a beneficio di un inconfondibile suono che inchioda al genere, rendendolo da subito riconoscibile. Non poteva che essere lo spargimento di grazia di una voce femminile, quella della violinista Azzurra Terrana, a completare il quadro. Oltre a governare le note e gli accenti di un ammaliante violino, sa reggere il palco in maniera sempre più sorprendente, con il passare del tempo si è impadronita di un ruolo che non si limita a fare da tramite tra gruppo e pubblico: è lei un vero e proprio punto d’innesco. E poi il contributo di voci che sembrano tagliate per spartirsi la scena, rilanciandosi l’un l’altra. Anche l’aspetto scenico contribuisce a riprodurre un’atmosfera, fortunatamente senza correre il rischio di apparire caricaturale.
Le loro origini bluegrass (dapprima bluegrass band), preservate nei ritmi e nei rapidi assoli di banjo e violino, non hanno impedito al progetto di virare verso una connotazione più genericamente folk. Brani celebri come “Tu vuò fa l’Americano”, “That’s Amore”, “Oh! Susanna” poi, riadattati con uno stile originale e coinvolgente, sono il primo sintomo del legame che sorge, e che i Wet Rags contribuiscono magistralmente a far affiorare, tra musiche appartenenti a tradizioni diverse. Che in realtà, subendo le medesime influenze, hanno conservato una radice comune. Dal folklore italo-americano alle ballate, la loro ricerca consente un’immersione nello sconfinato universo musicale del folk e nelle sue ibridazioni. Hanno assorbito suoni ed essenze di ogni angolo del mondo occidentale, partorendo un sound agricolo che non sopporta limiti geografici, imparentato con le arie popolari proprie alla nostra tradizione. Una testimonianza di quanto le culture musicali popolari possano somigliarsi al punto da confondersi.
Le loro note erranti attraversano il meridione d’Italia, prediligono le feste paesane, chiamano a raccolta le comunità. Balli che surriscaldano contrade, che creano aggregazione. L’esperienza musicale dei Wet Rags riscuote, forse senza saperlo, grande curiosità e interesse, e rappresenta una felice anomalia. Il loro progetto è già oggi una scommessa necessaria per l’intera scena locale. Questi musicisti, riscoprendo le armonie e i motivi nati lungo i monti Appalachi, non propongono solo musica, fanno cultura. Ma non spetterà soltanto a un pubblico devoto seguirli, toccherà a loro proseguire ostinatamente sulla strada tracciata. Ma quando le doti umane e le doti artistiche si fondono in un’unica progressione, allora, ragionevolmente, la strada appartiene a chi la percorre.