Venti luglio 2001, una data più di altre – mai più un giorno qualunque – equivale alla perdita dell’innocenza.
Sempre Genova, d’altronde, nel mirino della Storia: superba e anarchica, esposta e arroccata.
Tutto sommato calda, rovente. Nel ’60 come nel fiore degli anni zero, con Tambroni così come col Berlusconi II. La DC nello sgabuzzino, i suoi strascichi a capotavola.
Le strette autoritarie, come un abito grigio, non cedono mai il passo ad altre mode.
Luglio, per la nostra coscienza, è il minimo comun denominatore: laddove l’asfalto deforma la gomma delle scarpe e il futuro sembra essere materia da non procrastinare.
Li chiamarono visionari e complottisti, antesignani del NO anteposto a qualunque battaglia. Unici, tuttavia, ad aver compreso con larghissimo anticipo le dinamiche di un mondo allo sfascio. Unici, fra tanti, a cogliere le criticità di una fazione che ormai si apprestava a varcare irrimediabilmente le Colonne d’Ercole della sconfitta. La sinistra finì, ancor più sepolta, nel momento in cui i diritti sociali confluirono nella corsa ai diritti civili: l’una e l’altra cosa non possono essere subalterne, le tendenze – tuttavia – portano a battaglie non avvezze a sporcarsi col fango della sofferenza.
Molteplici le istanze dei No-Global, fu una chiamata alle armi ideologica per la generazione di mezzo: fra autunni caldi e shock petroliferi, fra benessere aleatorio e gli effluvi – neanche troppo lontani – di Goldman Sachs.
La parola crisi divenne ancor di più – se possibile – companatico di ogni stagione.
Genova, nell’estate del 2001, fu salotto del potere e campo di battaglia del popolo, sul tavolo tutte le tematiche che avremmo pagato – e continuiamo a pagare – a caro prezzo: la pangea economica e sociale, le periferie globali lasciate a secco, il trionfo del capitale sullo sviluppo della collettività, quei cambiamenti climatici per cui – ben oltre il tempo massimo – iniziamo a versare lacrime. La lotta si evolve, può anche cambiare strumento.
Mai i contenuti.
Cesura fra un prima e un dopo: la morte, del resto, è il segnalibro della memoria. Via Tolemaide prima, la Diaz poi, rappresentarono il complesso delle colpe italiane: vero e proprio elemento di stortura del sentire democratico. Cartina al tornasole di un’Italia che non seppe epurare i figli di Salò, gli stessi repubblichini che poi – guidati dalla mano nera di Almirante – fecero carriera fra le forze dell’ordine, arrivando ai vertici della piramide: scacchisti senza scrupoli, commutando le vertebre della gente in pedine.
Le giornate di Genova combaciarono, pertanto, col totale accantonamento dello stato di diritto, un plotone di uomini scelti a battere il ritmo delle percosse sugli scudi. Un ragazzo come tanti, destinato ad una giornata al mare, finito sui libri di Storia. Un colpo d’arma da fuoco in pieno volto, il soprabito da assassino e tossicodipendente cucito addosso dalla cloaca massima dell’informazione accondiscendente.
Il suo nome era Carlo Giuliani. Correggo, il suo nome è Carlo Giuliani.
Morire per delle idee – lo scrisse Fabrizio De André, colui da cui tutto parte e tutto torna – è la forma più alta di autodeterminazione.
Vent’anni dopo, brucia ancora: da vittima di Stato a Nostradamus delle derive in cui, amabilmente, sguazziamo in attesa di una liberazione che piova dall’alto.
Non più pronti a combattere ma, tant’è. Il sistema ci ha restituito una parvenza di voce, abbiamo preferito il silenzio.