L’osservazione ormai logora proveniente dagli ambienti confindustriali o dalla spicciola e sprezzante insofferenza dell’esercito di imprenditori privati della possibilità di manodopera a basso costo è ridondante. A loro parere, una folta platea di percettori del Reddito preferisce continuare a godere dell’assistenza dello Stato anziché rispondere alle proposte di lavoro. La domanda sorge spontanea: ma se una persona, di sana e robusta costituzione, magari in giovane età, preferisce ricevere (con tempistiche variabili) una cifra mensile che nel migliore dei casi, in presenza di un affitto da pagare, ammonta a 780 euro (a livello nazionale la media dell’importo erogato è di 573 euro), è perché non osa più alimentare il proprio progetto di vita o perché date le circostanze e l’epoca che stiamo vivendo ha bisogno di un aiuto per sostenere le spese essenziali e badare ai bisogni primari? E, soprattutto, perché dovrebbe rifiutare un lavoro per accaparrarsi il minimo indispensabile ai fini del proprio sostentamento? La risposta è scontata: perché nel paesaggio sociale gelido abbonda il lavoro sfruttato e sottopagato, una lama infilzata nella carne viva delle persone.
Le difficoltà di incontro tra domanda ed offerta di lavoro derivano principalmente dall’operato delle imprese, che offrono stipendi troppo bassi e fanno un massiccio utilizzo di contratti a tempo determinato. Ed è il 65% degli italiani a indicare come motivo del disallineamento tra domanda e offerta di lavoro gli stipendi bassi, secondo quanto emerge dal report “FragilItalia”, elaborato da Area Studi Legacoop e Ipsos, sulla base dei risultati di un sondaggio condotto su un campione rappresentativo della popolazione per testare l’evoluzione della percezione del lavoro, delle problematiche connesse e degli interventi auspicabili. La stragrande maggioranza del campione intervistato ritiene che per sostenere la crescita economica e l’occupazione lo Stato dovrebbe definire un salario minimo e incentivare il rientro (reshoring) delle imprese che hanno delocalizzato le produzioni.
Ricerca del profitto con modalità, termini e proporzioni prevalenti sulla tutela della dignità, della salute e della sicurezza, diffusione “trasversale a molti settori dell’economia” del delitto di intermediazione illecita di manodopera, sistemi organizzativi che scaricano “sui lavoratori i deficit strutturali e e organizzativi dell’ambiente di lavoro”. Questo lo scenario che emerge al termine di un anno di audizioni e sopralluoghi sul campo svolti dalla Commissione parlamentare di inchiesta sulle condizioni di lavoro in Italia, sullo sfruttamento e sulla sicurezza. Una relazione di 400 pagine depositata lo scorso 21 aprile e capace di inquadrare lo stato di sfruttamento del lavoro. Che si registra in ogni campo lavorativo: edilizia, sanità, assistenza, case di cura, logistica, call-center, ristorazione, servizi a domicilio e cantieristica navale.
La commissione lo definisce “caporalato urbano”, ossia un bracciantato metropolitano spesso costretto ad accettare qualsiasi condizione di lavoro, con retribuzione indegna. Tanto che i senatori propongono di introdurre nel Codice penale una nuova fattispecie di reato nei confronti di chiunque, con violenza o minaccia, costringe il lavoratore ad accettare “trattamenti remunerativi deteriori e non adeguati alle prestazioni effettuate e, più in generale, condizioni di lavoro contrarie alle leggi ed ai contratti collettivi, ovvero a rinunciare a diritti spettanti in relazione al rapporto di lavoro (quali riposi, ferie, permessi, congedi, eccetera), procurando a sé o ad altri un ingiusto profitto“.
La ristorazione è uno dei settori in cui più emerge la difficoltà di trovare personale in questo momento. Nelle ultime settimane si è sviluppata una discussione pubblica relativa alle difficoltà delle aziende nel trovare giovani disponibili al lavoro, in particolare in alcuni settori anche per la ‘stagione estiva’ e nella ristorazione. Questa discussione però ha finito spesso per alimentare l’idea fuorviante che la nuova generazione abbia poca voglia di lavorare e fare sacrifici, aggiungendo che una parte del problema sia rappresentato dal reddito di cittadinanza. Ma la geografia del reddito dimostra come il problema della mancanza di personale permane anche nelle zone dove vi è un numero minimo di percettori. A conferma del fatto che la difficoltà nel reperire forza lavoro è dettata esclusivamente dalla situazione in cui versa l’intero settore: paghe al di sotto dei minimi tabellari, lavoro gratuito mascherato da formazione (con stage e tirocini), orari insostenibili, ben al di sopra le 40 ore settimanali, straordinari non pagati, ambiente cameratesco e punitivo. E questo mentre continua la crociata contro i giovani scansafatiche a opera degli chef cosiddetti “stellati”, che in un Paese dove non si investe in innovazione e ricerca da quasi trenta anni sono d’improvviso la punta più avanzata del modello di sviluppo. D’altronde, sul totale annuo di vertenze di lavoro per non corretto trattamento retributivo o contrattuale una buona porzione (attorno al 40%) arriva solo dai settori dei servizi-ristorazione-turismo.