Sono giorni ormai nei quali sentiamo ovunque parole e richiami ben precisi. Si potrebbe pensare ad un dizionario new age composto da termini che fino ad ora non avevamo mai tenuto in considerazione: “lockdown“; “distanza di sicurezza”; “virus“; “solitudine”; “Mes“; “povertà”; “pandemia”; “vaccino”; “plasma”; “fase uno e due”; “decreti”; “silenzi perenni e assordanti”;
Abbiamo – e si spera definitivamente – detto addio ad alcune di queste parole, per poi abbracciarne altre in modo anche del tutto invadente nella seconda fase che come per la prima, ha richiesto molto spirito di adattamento e svariate domande senza tempo, alle quali non sappiamo darci nessuna risposta in modo assoluto.
Un po’ di quesiti però mi rimbombano continuamente: A che tipo di stanchezza andremo incontro? Ci siamo assuefatti al dolore e alla possibilità di morire, probabilmente perché la nostra paura si è semplicemente stabilizzata? Ogni fase successiva alla precedente farà sempre più impazzire la “folla” fino a poter giungere all’anarchia totale? Aumentare la soglia del dolore significherà sempre più spesso pensare solo al generale, rischiare quindi di diventare distanti dal singolo o propendere involontariamente al cinico? Il mondo farà “bla bla bla” dimenticando le voci necessarie, come ad esempio le seguenti? Spero che nell’isteria della polemica si riesca sempre – seppur diversamente – ad ascoltare l’altro.
Ecco che a seguito di queste domande, o meglio trastulli mentali, è cresciuto sempre di più il desiderio di raccontare tre storie diverse per la rubrica “Sale della terra e luce del mondo” incentrate sulle esperienze personali di chi lavorato a stretto contatto nel settore sanitario durante l’emergenza Coronavirus. La prima testimonianza mi è stata raccontata da un farmacista che ha vissuto le intemperie della fase uno direttamente in Campania; giorni stracolmi di tensioni, punti interrogativi, momenti di fragilità e di grandi paure: una vera e propria rivoluzione professionale che ha messo in discussione ogni presunta stabilità emotiva. Ritorniamo indietro, ai primissimi giorni della fase uno e raccontiamo la storia di Alfredo (nome immaginario) a distanza di oltre un mese e mezzo.
“La prima settimana dell’attuazione del Decreto Ministeriale Stay at home che sanciva l’inizio della quarantena con apertura al pubblico solo degli esercizi di prima necessità, è stato uno dei tanti banchi di prova importanti per la nostra professione di farmacista. Ci siamo trovati, da un lato, a dover gestire l’educazione a nuove regole di salute pubblica usando la massima delicatezza e dall’altro abbiamo fatto da cuscinetto a tutte le paure, le ansie, anche quando queste diventavano psicosi”.
A tal proposito, nei giorni scorsi la Regione Campania ha provveduto nel fornire due mascherine per ogni famiglia. In principio, come per l’inizio di ogni fase, si richiede un assestamento mentale, in quanto si sconvolgono gli equilibri quotidiani. È importante anche somministrare un contributo emotivo ai professionisti del settore – e non solo – al fine di non procedere verso il baratro psicologico.
“Continuiamo tutt’ora a trasmettere serenità anche quando dentro di noi i sentimenti sono altri. Perché la nostra professione richiede anche questo aspetto. Mi piace pensare che siamo, ancora e più del solito, dei cestini svuota tutto, delle spugne. Ascoltiamo padri di famiglia preoccupati a causa dell’arresto del proprio lavoro, nonni che ci raccontano le difficoltà in cui vivono i nipoti nelle zone maggiormente colpite dal Coronavirus, o peggio ancora, genitori straziati perché lontani fisicamente da figli risultati positivi al test. Purtroppo, però, siamo anche un monito severo e forse anche antipatico per chi, in modo indisciplinato, palesemente ci utilizza per prendersi l’ora d’aria; non ci stanchiamo mai di spiegare che le regole sono importanti, soprattutto in questo momento, perché sinonimo di responsabilità sociale. All’inizio è stato difficile comunicare alla persona anziana di riferimento che il farmacista con cui di solito condivideva aneddoti, non poteva più ascoltare per tanto tempo le sue storie. Sì, perché ora è importante essere veloci, senza togliere tempo alla completezza e chiarezza delle informazioni”.
Queste le parole del farmacista che aggiunge alla testimonianza molte note dolenti sugli aspetti organizzativi del proprio lavoro durante il Coronavirus:
“Da un punto di vista tecnico, ci siamo trovati nel bel mezzo di una guerra, di un’emergenza socio sanitaria senza armi, di un’estrema difficoltà e precarietà per quanto riguarda le tutele riservate al farmacista. La nostra è una battaglia a largo spettro, perché tutelare noi, così come tutti gli operatori sanitari, significa tutelare la collettività dall’attacco del virus. Non dimentichiamo, infatti, che per questo periodo di emergenza del COVID-19, per evitare assembramenti all’interno degli studi medici, il paziente può recarsi direttamente in farmacia con il codice NRE della ricetta prescritta dal medico. Appare chiaro che il paziente non rimarrà poco tempo in farmacia in questo modo”. E ancora: “Su proposta dell’Ordine dei Farmacisti, è stata sancita dalle autorità sanitarie competenti regionali la discrezionalità delle farmacie di lavorare a battenti chiusi, qualora i lavoratori non fossero adeguatamente protetti dai dispositivi di protezione individuale (DPI). Ma è stata proprio la parola discrezionalità che ha consentito ancora una volta la mancata tutela del farmacista, soprattutto se quest’ultimo per difendersi ha solo una mascherina sterilizzata autonomamente per poi riutilizzarla e soprattutto se non può utilizzare altre protezioni, per non ingenerare panico nei clienti. Assurdo, no?”
Ci sono altri aspetti che secondo lei dovrebbero essere contemplati?
Sì. La situazione di cui le ho parlato prima non ha fatto altro che aumentare la pressione lavorativa, psicologica, che già non era delle migliori. Il fatto che ancora una volta abbiamo dovuto puntare i piedi per terra per essere rispettati ci fa riflettere su quanto ancora non sia compreso in toto il nostro ruolo socio- sanitario, da sempre a sostegno del Sistema Sanitario Nazionale. Al di là delle polemiche, ciò che ci deve far riflettere è che comunque non abbiamo avuto un minimo di formazione sull’utilizzo dei DPI. In questo modo il farmacista viene visto agli occhi del pubblico come un incapace e il titolare come un mercenario. È chiaro che sono da condannare le speculazioni sulle mascherine effettuate nei primi giorni dell’emergenza, messe in atto da alcuni colleghi – se così possiamo definirli – ma è altrettanto vero che ci sono stati anche valorosi farmacisti che hanno regalato, ad esempio, gel igienizzanti da loro prodotti e che in generale che hanno sempre cercato di dare il loro contributo con dedizione, pazienza e il sorriso di sempre.
Ha mai pensato a delle soluzioni pragmatiche da proporre ai suoi colleghi?
Certo! Se è vero che la farmacia è il primo presidio sanitario territoriale e se è anche vero che questa cosa venga riconosciuta da tutti, perché allora non pensare ad un altro tipo di coinvolgimento? Possiamo auspicare ad un’unica squadra di operatori sanitari professionali e volontari, magari installando tende da campo proprio in prossimità delle farmacie? Sarebbe un modo per sottoporre i pazienti al tampone per il covid-19, e quindi per evitare il sovraccarico di lavoro presso le strutture sanitarie, quali 118, pronto soccorso, ospedali, già di loro – tra l’altro – oberate di lavoro. Si limiterebbe anche lo spostamento delle persone, probabilmente. Insomma, un “gioco di squadra” analogo a quello messo in campo, ad esempio, per la campagna di prevenzione per il colon retto o altre iniziative di profilassi.
“Non chiamateci eroi” mi hanno tutti più volte sottolineato e allora umilmente e con gli occhi gravidi di commozione, penso a loro come al “Sale della terra e luce del mondo”.
Continua…