Sono giorni ormai nei quali sentiamo ovunque parole e richiami ben precisi. Si potrebbe pensare ad un dizionario new age composto da termini che fino ad ora non avevamo mai tenuto in considerazione: “lockdown“; “distanza di sicurezza”; “virus“; “solitudine”; “Mes“; “povertà”; “pandemia”; “vaccino”; “plasma”; “fase uno e due”; “decreti”; “silenzi perenni e assordanti”;
Abbiamo – e si spera definitivamente – detto addio ad alcune di queste parole, per poi abbracciarne altre in modo anche del tutto invadente nella seconda fase che come per la prima, ha richiesto molto spirito di adattamento e svariate domande senza tempo, alle quali non sappiamo darci nessuna risposta in modo assoluto.
Ecco che a seguito di queste domande, o meglio trastulli mentali, è cresciuto sempre di più il desiderio di raccontare tre storie diverse per la rubrica “Sale della terra e luce del mondo” incentrate sulle esperienze personali di chi lavorato a stretto contatto nel settore sanitario durante l’emergenza Coronavirus. La terza ed ultima testimonianza mi è stata raccontata da due giovani OSS che chiameremo Margherita e Fabrizio (nomi immaginari) che hanno vissuto un’ esperienza completamente diversa rispetto alle precedenti e che di conseguenza potremmo definire profondamente umana in un abisso disumano. Margherita e Fabrizio mi hanno lasciato qualcosa di significativo che è andato di gran lunga, ben oltre le trame di un racconto a distanza. I nostri OSS mi hanno teso la mano e mi hanno portata dentro quei corridoi cupi, donandomi la possibilità di assistere a quanto sia ancora necessario credere che “la ginestra leopardiana riesce a crescere anche e/o nel più tetro deserto. Ritorniamo indietro, ai primissimi giorni della fase uno e raccontiamo la storia di Margherita e Fabrizio (nomi immaginari) a distanza di oltre un mese e mezzo.
Questa è la storia di due ragazzi che dalla provincia di Salerno, sono partiti nel cuore dell’emergenza per andare verso il martoriato Nord. Accertata la domanda dopo la necessità di incrementare il personale sanitario, l’11 marzo i nostri OSS, sono stati chiamati per un colloquio conoscitivo. Il 19 marzo del 2020 è iniziata la loro missione in un noto ospedale del centro settentrionale.
“Non abbiamo mai fatto nulla di così bello! Può sembrare un’ iperbole ma non è così. Siamo partiti nell’incoscienza più totale, sprovvisti di progetti, aspettative e reali immaginazioni. Durante il viaggio entrambi ci ripetevamo che ci vuole una buona dose di coraggio per fronteggiare questa situazione alla quale siamo tutti indirettamente chiamati in prima persona ad intervenire. Lungo il tragitto io e il mio collega non so quante volte, ci siamo ripetuti se fossimo davvero noi i soggetti in questione che partivano. Ancora adesso siamo del tutto increduli. Ovviamente, non posso nasconderle il fatto che le nostre famiglie sono state terrorizzate per la nostra scelta.
Cosa avete trovato appena siete arrivati sul posto?
Nel momento in cui siamo giunti sul posto, nulla ci aspettavamo fuorché tutta questa solidarietà. Un direttore di un noto sindacato ci ha messo immediatamente a disposizione il proprio appartamento sfittato. Più di una volta ha dichiarato la sua gratitudine dei nostri riguardi, manifestandola attraverso gesti pieni d’affetto. Più di una volta, ci ha chiamati per sapere come stessimo, se necessitavamo di un piatto caldo o di una coperta in più. La sua attenzione è stata straordinaria. Ci hanno fatto sentire davvero importanti e soprattutto a casa. Purtroppo a dispetto di quanto si possa pensare, questa è stata sì una guerra di cui sono cambiati i mezzi d’azione. Attenzione, non voglio sostenere cose che vadano al di là delle mie competenze, ma posso dirle senza troppi giri di parole che è una realtà che nel giro di poco, ti sconvolge completamente, mette in discussione le tue priorità e la visione che hai del tutto. Spesso mi capita di sentire telefonicamente i mie cari o i miei affetti e di sottolineare loro l’inutilità del “lamento” a causa delle restrizioni. Capisco ovviamente la piaga del dolore che ha invaso per forza di cose l’esistenza di ognuno, ma qui si muore per davvero. La maggior parte delle persone con cui interagisco sono uomini dai cinquant’anni in sù; persone autonome che fino a poco prima del Coronavirus svolgevano la propria vita in tutta normalità. Sa io entro nella loro sfera più intima, li aiuto a mangiare e a lavarsi perché attaccati ad un respiratore.
I pazienti sono completamente soli e non per volontà familiare, ma perchè il virus impone questa prassi. Immagini pazienti strappati dai propri affetti, così da un momento ad un altro, senza preavviso, senza esser pronti e con l’incognita di non sapere se domani riusciranno a vivere o meno. Nella solitudine però, si ricordi, trionfa sempre l’umanità. Noi non lavoriamo assecondando le loro tristezze o le loro giuste sofferenze. Entrambi ci presentiamo ai nostri pazienti come se fossimo la loro famiglia, come se fossimo portatori di allegria e di realismo. Non sa quanti matrimoni programmati ho con molti di loro, cene dalle nostre parti, litri di vino da andare ad assaggiare quando tutto questo sarà finito, viaggi immaginari e passeggiate in riva al mare. Mi viene spontaneo scherzare con loro e portare nel mio piccolo un sorriso. I malati affetti da Covid-19 hanno bisogno di sentirsi umani e quando avvertono il calore, ringraziano in continuazione, così come se fosse un evento speciale e raro. Un giorno, un signore che era in reparto, ormai esausta a causa dell’invadenza delle cure e del respiratore, mi guardò molto arrabbiato. La sua intenzione irrazionale fu quella di strapparsi il respiratore e forse di conseguenza, quella di lasciarsi definitivamente andare. Lo guardai intensamente negli occhi, per quanto fossero coperti dalla macchina che lo teneva in vita e gli ricordai che i suoi familiari gli avevano scritto nei giorni addietro, un bigliettino per rammentargli di quanto fossero importanti le parole e il ricordo di chi instancabilmente è capace di amarti a qualunque distanza. Fu proprio quella lettera che gli permise di andare avanti e di trovare la forza per combattere il suo terribile nemico.
Il mio collega mi ha raccontato, invece, di una signora che era sola nel corridoio dell’ospedale per il quale stiamo lavorando. Sì nel corridoio come se fosse un film di guerra. La paziente in questione, purtroppo, a causa dell’incombenza dell’emergenza, stazionava da molte ore da sola senza scambiare parole con nessuno. Ovviamente nelle situazioni di crisi ciò che conta è cercare di tamponare nell’immediato il problema principale. Tutto il resto – o meglio ciò che vagamente è legato al fattore umano – passa brutalmente in secondo piano. È venuto spontaneo al mio collega Oss accarezzare l’anziana sul volto, così per allietarle quel dolore, così per lenire quel senso di sconforto; un gesto così semplice ma che assume tutto un altro valore nella precarietà del momento. La base del nostro lavoro consiste nell’aiutare il prossimo e non solo da un punto di vista medico sanitario. Purtroppo a causa della ferocia del virus, spesso questo aspetto ha subito grandissime variazioni implicando una sfida senza eguali soprattutto sul piano temporale.
Qual è la parte più difficile del vostro lavoro? Quali sensazioni vincono a fine giornata?
Come le ho detto all’inizio, per quanto questo sia un lavoro molto sacrificante, resta sempre l’esperienza più bella e importante della nostra vita, perché ristabilisce le priorità dell’esistenza in generale, proponendosi come uno tsunami di domande alle quali nessuno dei due pensava di trovare – tra l’altro proprio qui – delle risposte ben precise. Ad oggi posso dirle con certezza assoluta che la paura non esiste più. Questa fase è stata superata ampiamente da entrambi. Fare bene questo lavoro significa anche seguire un codice professionale molto preciso: ambiente sporco, ambiente pulito, turni, priorità e regole ligie per superare al meglio la pandemia in generale. Per fortuna pian pianino i contagi sono diminuiti e questa è una soddisfazione straordinaria. Purtroppo ciò che è umanamente devastante è quando un uomo si spegne davanti ai tuoi occhi. Solitamente i pazienti muoiono soffocati, lottando invano in nome dell’ultimo respiro. Il corona virus è un nemico senza pari: ha privato l’intera umanità sia dal proprio ossigeno mentale e parallelamente, ha sterminato numerose vittime morte per asfissia polmonare. Proprio nel momento in cui comprendiamo che l’aria del paziente sia sempre più esigua, cerchiamo di – laddove è possibile – allietare la vittima dandogli la possibilita di effettuare l’ultima video chiamata alla famiglia. Un “rituale” agghiacciante a causa del quale la separazione del gesto si fa viva più che mai. Esiste una stanza all’interno di ogni struttura in cui nella prima fase, gli effetti personali del deceduto venivano raccolti e posizionati in un sacco nero. Sì, un sacco nero.
Probabilmente questo è uno dei motivi principali per cui i nostri protagonisti amano così tanto il proprio lavoro al tal punto da continuare a sottolineare che sia il lavoro più bello di tutti. Pensare di poter diventare dei “sacchi neri” può darsi ci serva a comprendere quanto sia ancora necessario espiare la futile polemica e quanto sia ancora fondamentale, credere che ogni singola esistenza attuale sia straordinaria come quella dei nostri personaggi. I professionisti di cui vi abbiamo parlato hanno fatto tutti il tampone e per fortuna stanno bene.
“Non chiamateci eroi” mi hanno tutti più volte sottolineato e allora umilmente e con gli occhi gravidi di commozione, penso a loro come al “Sale della terra e luce del mondo”.
Grazie.
Fine