Regionali Umbria 2019: crisi d’identità e derive sovraniste

“Sono giornate furibonde senza atti d’amore”, si potrebbero citare le Anime Salve di De André per tracciare il profilo di questa tornata elettorale oppure, glacialmente, dire che l’urna ha sentenziato. In Umbria la coalizione di centrodestra formata da Lega, FDI e FI ha brindato alla vittoria raggiungendo il 57% delle preferenze. Donatella Tesei, dunque, asfalta Vincenzo Bianconi e si assicura il timone di Palazzo Cesaroni, sede della Regione Umbria. La sconfitta, durissima da digerire, annichilisce le mire contenitive di un centrosinistra fermatosi a ridosso del 37% che – per la prima e probabile ultima volta – vedeva convergere nelle intenzioni PD e M5S. Uno smacco totale – lapalissiano se si considera il gran numero di scelte impopolari compiute negli ultimi tempi – che consegna ai sovranisti uno degli ultimi baluardi rossi della penisola. L’esito delle elezioni umbre è molto più che un campanello d’allarme per la sinistra che, a quanto pare, dopo essersi crogiolata a lungo nel ricordo di primavere ormai sfiorite, sembra aver definitivamente ceduto il passo. Imborghesita, a guardia della sua turris eburnea, ha perso quell’appeal che, storicamente, la legava al roboante calore delle piazze. Un dato che fa riflettere se ci si attiene alla geografia sociale umbra e al suo ruolo nel panorama industriale italiano. Sembra ormai evidente che i riverberi isolazionisti – i “chiudete i porti” e i “prima gli italiani” per intenderci – attecchiscano con molta facilità in questo preciso momento storico. Sarebbe necessario costruire paralleli internazionali – basti appunto verbalizzare la recentissima affermazione della AFD (Alternative Für Deutschland) in Germania – per rendersi conto che, effettivamente, le destre tuonano più forte o, più verosimilmente, offrono maggiore senso di protezione ad un elettorato in costante paranoia, preda di tristi e ventilate involuzioni culturali.

Volendo analizzare, partito per partito, i risultati delle elezioni umbre è facile delineare i confini fra vincitori e vinti e, di conseguenza, attribuirgli un volto preciso. Considerando che, solitamente, i risultati conseguiti localmente si riflettono a livello nazionale. Viaggiano col vento in poppa Matteo Salvini e Giorgia Meloni, rispettivamente al 37% e 10,4%. Entrambi sostenuti dalla loro politica 3.0, incisiva e battente a mezzo social. Entrambi capaci di parlare alla pancia di una marea che, sentendosi abbandonata dalle istituzioni, lenisce le proprie inquietudini rifugiandosi in un nugolo di notizie aleatorie ma, a quanto pare, spifferate in maniera convincente. Discorso a parte merita Silvio Berlusconi, vincitore solo sulla carta. Gli anni non aspettano e sembra ormai giunto il tramonto di un’avventura politica lunga 25 anni (a lui il “merito” di aver importato modelli comunicativi di addestramento delle masse di cui stiamo pagando lo scotto in termini culturali). Il 5,5% rimediato parla chiaro, il cavaliere è stato letteralmente fagocitato dall’ondata verde.

Il grande deluso è senza ombra di dubbio Luigi Di Maio che, ancora una volta, non si dimostra all’altezza della situazione. La poltrona scricchiola e il ventre del Movimento inizia a brontolare con maggiore intensità, si prospetta un autunno caldo per i pentastellati che dovranno giocoforza fare i conti con un’emorragia di voti – appena il 7,4% delle preferenze in Umbria – che rischia di condurre alla morte cerebrale una realtà che, sballottata dalla corrente delle indecisioni, ha comunque sfiorato vette altissime dal punto di vista prettamente quantitativo.

Zingaretti è irrimediabilmente destinato al girone dei confusi, il suo PD – primarie permettendo – si è attestato su percentuali che circumnavigano il 20% (il 22,4% se ci si basa sul risultato umbro) ma non pare in grado di costruire alleanze stabili. Decisamente sbagliata la scelta della compagnia per instaurare quel fronte comune immaginato nella fredda alba del nuovo esecutivo. Dai salotti romani sussurra ormai con voce fioca, cautamente riformista ma distante dalle aspettative. Dalla sua culla neoliberista, invisa alle frange meno moderate, è destinato al ruolo di capro espiatorio – in seno alla propaganda di Lega e FDI – ed ora lontano parente di quel partito che fino a 5 anni fa sembrava poter reggere da solo le sorti del linguaggio politico nazionale.

Il premier Conte presto dovrà svestire gli abiti del presidente super partes ed iniziare a sporcarsi le mani con una politica che non si presti a interpretazioni. C’è bisogno di una considerevole accelerazione, il suo governo traballa e, dovessero arrivare altri spintoni a livello locale, potrebbe naufragare nella tracannata e populista attesa di nuove elezioni. Ci si inoltra per l’ennesima volta – sicuramente non l’ultima – verso i sentieri dell’incertezza, la sfida delle regioni è appena iniziata, nel 2020 infatti andranno al voto: Emilia Romagna, Calabria, Campania, Liguria, Marche, Puglia, Toscana e Veneto. Ancora tutti da sciogliere i nodi delle prossime alleanze, tutte da vincere le resistenze interne, tutte da stabilire le contromisure da adottare per una sinistra che definire allo sbando è il più dolce degli eufemismi.

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