Ne abbiamo lasciato annegare uno su cinque, abbiamo consentito a un sedicente ministro di tenere in ostaggio donne incinte e bambini su una nave della Nostra Guardia Costiera, abbiamo mantenuto in vita una legge, la Bossi-Fini, che ha fabbricato clandestini e punito chi ha osato tendere una mano a un prossimo invisibile. Chi è criminale? E chi eversivo? Un potere che lucra consensi sulle vite altrui e diffonde distorsioni cognitive o un sindaco che, opponendosi a questa barbarie, ha adottato tecniche di disobbedienza civile per favorire un’accoglienza ragionata e lungimirante senza un fine che non sia sociale e politico?
Le leggi esistenti, soprattutto se ingiuste, non cambiano lo stato delle cose, non migliorano le condizioni di vita degli esseri umani afflitti dalle disgrazie dell’epoca, non donano nuove prospettive ai posti. E dunque è una sentenza aberrante, quella che riguarda Mimmo Lucano. Legittima l’esistenza del reato di solidarietà e integrazione, già teorizzato sul piano politico e culturale, anche a livello giudiziario. In attesa di leggere le motivazioni della sentenza e di attendere gli altri gradi di giudizio, occorre una profonda riflessione sull’incidenza della magistratura nelle vicende cruciali della società italiana. Anni di abusato anti-berlusconismo, in cui la sinistra ha abdicato al suo ruolo per trovare un’identità di riflesso, hanno santificato il ruolo della magistratura soltanto perché in quel frangente colpiva il “nemico”. Si è trattato di un errore storico. Nel nostro immaginario, la magistratura ha assunto per lungo tempo il ruolo dell’entità neutrale e giusta capace di salvare il Paese dalle avversità di una politica maligna. Quasi di sostituirla.
La sentenza Lucano è un attacco a un modello di società e alla rinascita di un Sud svuotato, attraverso un sistema virtuoso di accoglienza e integrazione. Nella patria degli impuniti, affamata di verità, in cui trattare con la mafia non costituisce reato, in un Paese spolpato dalla corruzione, dalla criminalità, dalla collusione politico-mafiosa-imprenditoriale, da ogni forma di sfruttamento, da un ricorso diffuso all’illegalità, l’impianto accusatorio, i reati contestati e i 13 anni di pena a Mimmo Lucano (che avrà sicuramente commesso leggerezze nel forzare maldestramente dei meccanismi, d’altronde chi non ha dimestichezza con il diritto in questo Paese rischia di soccombere anche da innocente) sono irricevibili per qualsiasi coscienza. Che la legge non sia uguale per tutti, è una delle poche certezze di questo Paese. Ma che il potere giudiziario possa creare meno danni alla nostra democrazia di quello esecutivo e di quello legislativo, è un’opinione da rivedere urgentemente. Frutto dell’illusione di un’epoca.
La storia di Mimmo Lucano è realmente segnata da una persecuzione politico-giudiziaria. Anche se sarebbe più appropriato chiamarlo accanimento. Eppure il suo operato ha avuto il merito, in un contesto desolato lì giù, in fondo allo stivale, di riportare l’azione politica all’interno di una dimensione esistenziale. Attraverso un’esperienza di rottura capace di fornire risposte e di accogliere. Accogliere non soltanto fisicamente le persone. Ripopolare non soltanto fisicamente un paese senza più futuro. La sua esperienza non ha cercato consapevolmente la strada della disobbedienza: imboccarla è stata un atto di necessità. Quando gli strumenti normativi e le derive politiche ostacolano l’umanità o, come nel caso dei decreti in(sicurezza) di paternità salviniana, producono effetti nefasti, la strenua opposizione che sfocia in forme efficaci di disobbedienza civile è l’unica via disponibile. Ciò che ha segnato la sua storia giudiziaria è stato il Decreto Minniti-Orlando che ha ridotto da tre a due le possibilità di poter ricorrere riguardo alle decisioni per il riconoscimento dello status di rifugiato politico. In quel momento è scoppiata a Riace la rivolta delle donne nigeriane che non avevano una terza possibilità di ricorso.
“A quel punto ero con le spalle al muro: o stavo dalla parte dell’umanità e disobbedivo, oppure stavo con lo Stato. Il Decreto Minniti-Orlando è stato l’anticamera dei Decreti sicurezza di Matteo Salvini poi superati dal secondo governo Conte: alla fine è sempre relativo essere o meno nella legalità tanto che oggi nemmeno i Decreti sicurezza sono più legali. Becky Moses, donna nigeriana che viveva felicemente a Riace, a causa di quel Decreto è stata costretta a lasciare il nostro comune per andare vivere nella baraccopoli di San Ferdinando e lì, in quell’inferno dei vivi, ha perso la vita. Di fronte a fatti del genere io semplicemente ho scelto istintivamente di seguire la strada dell’umanità, di un ideale di giustizia molto più importante della cosiddetta legalità”.
Le intercettazioni, secondo i pm, dimostrerebbero che quel suo prodigarsi per i migranti e per favorire l’integrazione, e l’intero modello Riace, studiato all’estero come modello d’eccellenza per l’integrazione, ha ricevuto in cambio non soldi ma solo l’approvazione della sua gente che gli ha rinnovato la fiducia alle urne per ben tre volte. Un paradosso, nel Sud mortificato dal voto di scambio politico mafioso. Nel cuore di un sistema clientelare.
Esprimere solidarietà nei confronti di Mimmo Lucano significa anche confidare nel tempo. Il tempo sarà galantuomo, più di ogni altro potere su cui poggia questo Paese già condannato.