Il nostro presidente. Chi lo ricorda utilizza inevitabilmente l’aggettivo possessivo. Perché Sandro Pertini, il partigiano Pert, non è stato soltanto un padre costituente ma una guida colta, appassionata, umana del popolo italiano. Una costante presenza, un carisma fuori dal comune, una schiettezza gravida di onestà intellettuale e pragmatismo. Tutte straordinarie doti umane, le stesse che gli hanno permesso non soltanto di incarnare le gioie e i sentimenti della gente ma di esprimerne tutte le preoccupazioni rinfocolando, volta dopo volta, il suo “potere di esternazione”. Particolarmente insolito per un Capo dello Stato. Particolarmente stimolante per ogni settore della vita pubblica e politica.
Quella domenica sera di novembre, dopo che la spina dorsale del mezzogiorno viene scossa da un terribile sisma, mutando per sempre la fisionomia di paesi e popolazioni di quel profondo Sud tradito dal ruggito della terra, le notizie arrivano a singhiozzo. Solo a notte fonda si avrà contezza dell’area colpita con la drammatiche testimonianze che giungono da Balvano, dove la chiesa è crollata conducendo definitivamente alla casa del Padre coloro che vi avevano fatto ingresso per la Santa Messa. Il giorno successivo gli elicotteri si alzano in volo e trasmettono le prime immagini della devastazione. La gravità della situazione e l’isolamento di vaste zone, tuttavia, non permettono ancora di poter tracciare l’entità della catastrofe. Pertini decide di partire, è la sua indole a guidarlo sui luoghi del disastro, la sua generosità a indurlo a recarsi sul posto per accorgersi personalmente della situazione.
Il 25 novembre del 1980 il Presidente della Repubblica atterra a Laviano. L’aeronautica organizza il volo con scarsissimo preavviso, avendo Pertini trascurato il parere di Forlani e dei ministri. Sorvolando la zona si rende conto che la macchina dei soccorsi non si è messa in moto. Assalito dalla disperazione, Pertini cerca un disparte per asciugarsi le lacrime appena sceso dal velivolo, ancor prima di incamminarsi per le vie ridotte a cumuli di macerie. Non immaginava una simile devastazione, il segno tangibile di una catastrofe proprio davanti ai suoi occhi. “Volevo dirle, però, che non abbiamo bisogno solo di parole”, gli dice un uomo andandogli incontro, mentre Pertini, barcollante, con la vista ancora annebbiata dalle lacrime, si stringe a lui quasi aggrappandosi. “Lo so, lo so, io non le faccio le parole. Saranno i fatti che conteranno. Ha ragione. Le parole sono vane”.
Si scava a mani nude, ognuno si arrangia come può. Terrore e disperazione si compenetrano acuite dalla scarsità, dai lamenti, da nuovi cedimenti del suolo, dallo strazio dei lutti. Laviano è un paese devastato, con circa il 90% degli edifici distrutti e oltre 300 morti da piangere solo dopo aver scongiurato l’epidemia. Il ritardo di soccorsi, a Laviano così come negli altri centri del cratere, aggrava il bilancio delle vittime. Prima ancora dello Stato, del supporto di uomini e mezzi, una fiamma ossidrica avrebbe risparmiato il sacrificio di decine e decine di persone, tra cui numerosi bambini strappati al futuro di quella terra. Laviano non esiste più, è il caso in cui la frattura della terra si accompagna alla frattura della storia. Una zona che soccombe continuamente all’urto della terra, che attende il prossimo terremoto con solenne fatalità.
Pertini raccoglie l’urlo di quella gente nata e vissuta in una realtà rurale, appena sfiorata dalla modernità del secolo. È la sua gente, porta l’odore di un sacrificio misconosciuto, racchiude la ragione d’essere per cui il partigiano Pert si è battuto da sempre. E’ una terra di valori ancestrali, di identità particolari, di esperienze pietrose e desolate. L’apice del cosiddetto “socialismo appenninico”.
Il suo vibrante, indignato discorso, trasmesso dalla tv, scuote le coscienze. “Ho assistito a degli spettacoli che mai dimenticherò. A distanza di 48 ore non erano ancora giunti in quei paesi gli aiuti necessari, non ci sono stati i soccorsi immediati che avrebbero dovuto esserci. Ancora dalle macerie si levavano gemiti, urla di disperazione di sepolti vivi. Nel 1970 furono votate in parlamento leggi riguardanti le calamità naturali e mi chiedo, se questi centri di soccorso sono stati istituiti perché non hanno funzionato? Non sono arrivate nemmeno razioni di viveri. Vi sono state delle mancanze gravi, non vi è dubbio. Chi non è intervenuto deve essere colpito”. Pertini, con la sua scintilla, innesca attorno al disastro un ritrovato senso di comunità, aggregando il Paese da Nord a Sud in uno slancio fraterno. Migliaia di volontari accorrono nelle zone terremotate delle province di Potenza, Avellino e Salerno. L’inefficienza si trasforma in solidarietà. “Un appello voglio rivolgere: tutti gli italiani devono sentirsi mobilitati per andare in aiuto di questi loro fratelli colpiti dalla sciagura. Il modo migliore di ricordare i morti è aiutare i vivi”. Si mobilitano i sindacati, gli operai, le associazioni cattoliche, gli studenti. I volontari. Nell’Italia lacerata dagli anni di piombo, l’appello di Pertini riesce a compiere un insperato disegno di unità. E nonostante la pioggia e l’inverno che si scatena, implacabile, il volontariato sopperisce alle gravi mancanze dello Stato e all’impotenza delle prime drammatiche ore. Con la sua denuncia Pertini riesce a riversare il cataclisma delle zone terremotate nelle stanze del potere romano provocando, allo stesso modo, effetti devastanti: il Prefetto di Avellino e l’allora ministro degli Interni Rognoni sono costretti alle dimissioni. Lo stesso Pertini viene accusato di essere venuto meno al suo ruolo imparziale, come se il problema fosse rispettare il protocollo (o presunto tale) di palazzo invece di denunciare le cause della morte di migliaia di innocenti sepolti vivi.
Giuseppe Zamberletti viene nominato Commissario straordinario al terremoto. Sarà lui, sempre su impulso di Pertini, ad avviare il lungo percorso, terminato nel 1992, che condurrà alla nascita di una struttura ad hoc per le emergenze: la Protezione Civile.
“E’ già un altro Belice” titola Il Mattino a sole 48 ore dall’interminabile scossa delle 19.35 del 23 novembre. Anche Pertini lancia l’allarme: “Non deve ripetersi un altro Belice. Allora furono stanziate le somme necessarie. Dove è andato a finire questo denaro? Chi è che ha speculato? E se c’è qualcuno che ha speculato, costui è in carcere come dovrebbe essere in carcere? L’infamia peggiore per me è quella di speculare sulle disgrazie altrui”. Quello che accadrà confermerà i timori di Pertini. Quella terra dilaniata dal sisma, inevitabilmente finisce divorata dalla criminalità, dagli scandali. Con l’Irpinia Gate, la più grande speculazione sulle disgrazie di una terra, prospera la camorra. E mentre le aziende del Nord colonizzano le aree del mezzogiorno colpite dal sisma per partecipare al banchetto, godendo di laute sovvenzioni statali senza restituire nulla in cambio, la ricostruzione procede con una lentezza esasperante, generando un effetto vuoto proprio come nel Belice. Paesi dalle geometrie asettiche, lineari, sostituiscono i vecchi borghi, smarrendone l’identità. Un meridione che giunge ai giorni nostri in una condizione sospesa, quasi cristallizzata, di cui nessuno si è più occupato. Nell’estremo disagio sociale e culturale manifestato dai contesti di provincia, da quelle dignità e da quegli stili di vita completamente ignorati dall’agenda politica, da un nuovo esodo di massa delle nuove generazioni, la voce di Pertini sembra levarsi ancora per chiedersi che cosa non ha funzionato nel rilancio economico, industriale e demografico del mezzogiorno. Per tramutare in riscossa laboriosa l’impotenza sociale e la solitudine.