Perché nei paesi “più felici” le persone si suicidano di più?

È di pochi giorni fa la notizia che mi ha colpito al punto da far nascere la riflessione che poi ha generato quest’articolo. Rimbalzata su vari giornali online il titolo recitava più o meno così:

A Oslo è stato trovato in un appartamento il corpo di un uomo morto quasi 10 anni prima”. Ed io da bravo meridionale quale sono mi sono chiesto: “Come c***o è possibile un menefreghismo del genere!? Possibile che in tutto questo tempo nessuno se ne è accorto?”

Incuriosito sono andato alla ricerca di una risposta. Ho chiesto ad amici più o meno colti e più o meno preparati, a Google, a Wikipedia e purtroppo per me non ho trovato la risposta; ne ho trovate decine, tutte in contraddizione tra loro. E mi sono sentito subito in terza liceo quando ero alle prese dei filosofi Presocratici; per uno “l’origine delle cose” era nell’aria, per l’altro era il fuoco, per l’altro ancora nell’acqua etc… È una sensazione di smarrimento che ti dà un’unica consapevolezza: se tutti pensano di avere ragione allora sono tutti nel torto.

Ogni anno l’ONU redige il World Happiness Report (4), una valutazione della felicità dei diversi paesi del mondo, basandosi su parametri di reddito, aspettativa di vita, sostegno sociale, libertà, fiducia e generosità.Secondo il World Happiness Report 2020, i Paesi più felici del mondo sono Finlandia, Danimarca, Svizzera, Islanda Norvegia e Paesi Bassi. L’Italia è 30esima mentre la Grecia è addirittura 77esima.

Il report confligge curiosamente con un’altra classifica ovvero quella stilata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità sul tasso dei suicidi nel mondo (5). Questo indicatore fin dai tempi del grande Sociologo Émile Durkheim, di oltre un secolo fa, è visto come un indicatore importante dello stato di salute e di felicità di una società. Se osserviamo i dati dell’OMS, ci rendiamo subito conto di come paesi ricchi e felici come Finlandia e Islanda abbiano il tasso di suicidi tra i più alti del mondo (la prima 14,26ogni 100mila abitanti, la seconda 12,39). I loro numeri sono paragonabili a paesi in via di sviluppo come Benin e Togo e sono addirittura più alti di paesi, di gran lunga più poveri e in difficoltà, come Namibia, Sudan e Repubblica Centrafricana. Facendo un confronto con paesi come l’Italia e la Grecia ci rendiamo conto che nonostante questi non godano degli stessi livelli di welfare e reddito, nonostante il loro debito pubblico sia molto più elevato, i relativi tassi di suicidio sono più bassi di 2 o 3 volte rispetto ai paesi scandinavi.

Se sia il tasso di suicidi che il World Happiness Reportmisurano entrambi il “tasso di felicità” di una nazione, allora come è possibile questo paradosso?

Perché dunque nei “paesi ricchi” ed economicamente solidi, premiati con le ormai rarissime triple A dalle agenzie di rating, dove il welfare è generoso e la disoccupazione minima, il numero di persone che decide di togliersi la vita è così più alto che in nazioni in difficoltà come Italia e Grecia?Domande a cui è difficile dare una risposta. Prima di provarci però è bene fare alcune considerazioni;

Ad onore della cronaca c’è da dire che dal 1990 ad oggi il tasso di suicidi è in costante diminuzione nel mondo. L’Organizzazione mondiale della sanità segnala ogni anno circa 800.000 suicidi a livello globale. Si tratta di 11 suicidi riusciti ogni 100 mila persone mentre nel 1990 erano 16,6 per 100 mila del 1990. Un trend positivo che però presenta sacche di resistenza. In America centrale ad esempio è aumentato del 14%, in Giappone e Corea del sud del 10% in Africa sub-sahariana del 4,3% ed infine in Europa dell’est del 1,4%. Un altro dato curioso è che il tasso di suicidi in paesi come Danimarca (-60%) e Svizzera (-50%) è in calo ad una velocità maggiore rispetto alla media mondiale nonostante il livello ben sopra la media di questo tasso.

Inoltre ci sono categorie di persone e particolari gruppi etnici che si suicidano di più rispetto alla media.

I dati più sconcertantisono senza dubbio la disparità di genere ed il numero di suicidi presso le popolazioni artiche. Ovunque gli uomini si suicidano più delle donne con picchi,come quello Lituano, di una donna ogni 7 uomini. Gli uomini si suicidano molto più delle donne, e dal 1990 i maschi i suicidi sono diminuiti della metà rispetto a quanto è avvenuto fra le donne: un -23% dal 1990 contro un -49% (3).

La questione è stata cosi ben studiata che meriterebbe un articolo a parte. Quello che ci serve sapere ora è che questo fenomeno avviene in tutti i paesi del mondo e, probabilmente, il motivo è che gli uomini non sono educati dalla nostra società a chiedere aiuto e che ricavano pressioni sociali più forti rispetto alla tematica del successo economico. Sembrerebbe quindi che la società veicoli più o meno questo messaggio “Se non riesci ad essere l’uomo macho e ricco di tutti i film che hai visto da ragazzino, allora forse è meglio se ti fai da parte”.

Menzione d’onore in questa triste classifica va agli uomini Lituani. Chissà perché essere un uomo in Lituania sia cosi difficile… è una domanda che lascio aperta sia per motivi di spazio, sia per mia ignoranza.

Per quanto riguarda le etnie “la menzione d’onore” va alle popolazioni Inuit.

La causa parrebbe essere la difficile transizione al mondo contemporaneo che queste popolazioni stanno vivendo. Nulla di nuovo, in fondo è già successo anni fa ad altri popoli isolati o semi-isolati, che una volta che il benessere della globalizzazione li ha raggiunti, si sono suicidati in massa, più o meno inspiegabilmente (6).

Le popolazioni indigene di queste regioni vivono oggi la maggiore rivoluzione economica. Negli ultimi secoli gli usi e le tradizioni, oltre alle basi economiche e di sostentamento, erano rimaste pressoché identiche. Negli ultimi anni, invece, il mondo è riuscito a pervadere anche queste società.

Le popolazioni indigene vivono un rapporto simbiotico con la Natura sublimato dallo sciamanesimo, un complesso di credenze e pratiche rituali (riscontrabili anche in altri contesti etnografici) imperniate sulla figura dello sciamano, una sorta di capo carismatico investito di responsabilità collettive, mediatore tra la comunità e gli spiriti, stregone e terapeuta ritenuto capace di provocare malattie, oltre che di guarirle. La sua funzione principale è quella di assicurare la ‘fortuna’ nella caccia, in base all’idea che gli esseri naturali di cui si nutre l’uomo (selvaggina, pesci, piante) siano dotati anch’essi di una componente spirituale. Tutta questa forte identità culturale, con l’arrivo delle nuove tecnologia di comunicazione è andata persa di colpo. È come se un intera etnia entrasse in crisi di identità, con conseguenze nefaste quali abuso di alcool e suicidi. Infine e dato non da poco, quasi tutti gli inuit vivono in paesi ricchi e alle prime posizioni del World Happines Index. È lecito pensare che il loro tasso di suicidi ingrossi sensibilmente il dato della nazione in cui vivono (del resto il dato Groenlandese da solo supera di 8 volte quello americano, che di per sé non è affatto basso).

Altra etnia che in qualche modo si fa notare rispetto alla media sono i Giapponesi. Questi hanno una lunga tradizione riguardo al suicidio. Basti pensare al seppuku rituale dei Samurai o più recentemente ai suicidi di massa organizzati, o ancora al suicidio in diretta Tv di Yukio Mishima. Ciò che rende questo paese unico è il fatto che è il paese più longevo al mondo nonostante un elevatissimo tasso di suicidi. Il benessere dovuto alla medicina è cosi alto che nemmeno i suicidi organizzati di intere classi liceali riescono ad abbassare l’aspettativa di vita media al punto da perdere la posizione di “paese più longevo del mondo”.

Molti hanno provato a dare una risposta a questo paradosso. Ho cercato di individuare alcune posizioni più o meno condivisibili e di esporle brevemente qui di seguito;

La risposta istituzionale Esiste una risposta “Istituzionale”. Per quanto riguarda la Scandinavia, a darla ci ha provato uno studio del Consiglio dei ministri Nordico e dell’Istituto di ricerca sulla Felicità di Copenaghen, “In the Shadow of Happiness” (1) , condotto tra il 2012 e il 2016. I risultati restituiscono un’immagine molto più tenebrosa della felicità nordica. Secondo lo studio, il 12,3% della popolazione dei Paesi Nordici è in condizioni di infelicità e di sofferenza psicologica, percentuale che sale al 13,5% fra i giovani tra i 18 e i 23 anni e ben al 19,5% tra le ragazze svedesi (contro il 13,8% dei ragazzi). Solo gli anziani sono ancora meno felici dei giovani, con il 16% degli over 80 scandinavi in condizioni di sofferenza per problemi fisici di salute e solitudine. Il report mostra come nei Paesi Nordici il tradizionale pattern a “U” di distribuzione della felicità per fasce di età sia diverso da quello del resto del mondo: se infatti di solito sono i giovani e gli anziani a essere più felici della media (appunto con un andamento a “U”), ecco che invece in Scandinavia il pattern risulta praticamente rovesciato, con giovani e anziani meno soddisfatti degli altri.

Un altro studio condotto nel 2018 dal Nordic Council of Ministers, un forum di cooperazione tra i governi di Finlandia, Svezia, Norvegia, Danimarca e Islanda, ha analizzato i sintomi di questo vero e proprio problema. Il sunto delle conclusioni raggiunte dal report è il seguente: la felicità non è distribuita in modo uniforme. Nonostante il diffuso livello di benessere il 12.3% della popolazione riporta bassi livelli di soddisfazione di vita. Le fasce di popolazione più vulnerabili sono i giovani (18-23 anni) e gli over 80. Il 13.5% dei giovani e il 16% degli anziani riportano i livelli più alti di infelicità e sofferenza psicologica (in particolare in Danimarca il 18.3% dei giovani ha problemi psicologici, e in Norvegia questi sono aumentati del 40% in 4 anni).

L’origine del malessere dei giovani scandinavi non è facile da scoprire e da dimostrare scientificamente. «Ma abbiamo indizi sulle cause del problema: in Danimarca per esempio esiste una grande cultura del perfezionismo» oggi diventata controversa, continua Birkjaer, con ragazzi e ragazze portati a dover eccellere a scuola. Ma anche i social media hanno il loro peso, poiché oggi i giovani – non solo nei Paesi scandinavi – considerano l’utilizzo di Facebook o Instagram come un momento di socialità reale, non virtuale, in alcuni casi il più comune.

Spiegazioni un po’ povere con tanto di commento dal sapore qualunquista. Ma del resto cosa ci si può aspettare dai governi chiamati in causa se non un “non è colpa nostra?”

La prospettiva Tradizionalista

Molto popolare nelle testate della destra conservatrice questa prospettiva asserisce più o meno questo “I paesi ricchi e liberali sono nazioni multietniche dove la cultura tradizionale è venuta meno. È normale che la gente si suicida con più facilità in questi luoghi”. In altri termini danno la colpa al crollo dei valori tradizionali quali, famiglia, aggregazione, religione, senza risparmiare qualche accusa più o meno velata al sistema capitalistico. Il tutto condito con un sapiente Cherry Picking. Come esempio “Archetipico” mi sento di linkare quest’articolo;

https://www.ilfoglio.it/esteri/2017/03/20/news/onu-felicita-norvegia-svezia-danimarca-italia-eroina-suicidi-126215/

La prospettiva Progressista

Questa prospettiva invece punta il dito a gran forza contro il capitalismo e l’individualismo sfrenato che esso genera. Critica il World Happiness Index asserendo che esso sia un mero indicatore economico (affermazione palesemente falsa) o che comunque le variabili psicologiche abbiano un impatto minimo sul punteggio finale. Infine fa ampio uso di tematiche ambientaliste ed ha particolarmente a cuore la tematica della “solitudine artica”. Anche qui un esempio di articolo;

https://www.osservatorioartico.it/depressione-artico/

La prospettiva Liberale Questa prospettiva difende a spada tratta il sistema economico scandinavo ed attribuisce la colpa del tasso dei suicidi a fenomeni meramente meteoropatici; vivere per 6 mesi al buio non può che avere un impatto tremendo sulla psiche umana. Il che potrebbe essere anche vero ma purtroppo per questa trattazione il tasso di suicidi è alto anche in paesi ricchi che non vivono questa condizione (Corea del Sud, Giappone, Usa etc).Ecco alcuni esempi; https://istitutoliberale.it/il-mito-scandinavo-il-successo-economico-dell-estremo-nord-dell-europa/

https://www.ilsuperuovo.it/lassenza-di-sonno-e-i-disturbi-del-sole-di-mezzanotte/

La spiegazione religiosa

Non sempre collegata ad ideologie tradizionaliste questa spiegazione si fa forza del dato secondo cui, il credere in qualche divinità sia un fattore protettivo rispetto al rischio di suicidio. Il dato di per sé è scientificamente valido e viene usato come testa di ponte per l’argomentazione secondo cui ci sia bisogno di più religione nel mondo.

Ognuna di queste narrazioni dà una spiegazione più o meno convincente al fenomeno ed a me onestamente non importa convincervi dell’una o dell’altra. Quello che posso fare è aggiungere qualche riflessione personale a quanto detto e provare a fornirvi una spiegazione il più scientifica possibile.

La mia riflessione personale è la seguente;

Vivere in una società perfetta, alla lunga crea un problema importante ovvero l’assenza di problemi… può sembrare un assurdità ma in fondo ognuno di noi racconta, a sé stesso e agli altri, la sua storia personale inserendo nella narrazione dei problemi, veri o immaginari che siano. Questi problemi, quasi sempre di difficile soluzione, sostengono lo status quo dell’individuo e partecipano al processo di identificazione di quest’ultimo. Vivere in una società senza problemi può portare le persone ad alienarsi e a provare un forte senso di vuoto. È più facile che le loro vite vengano percepite come insensate, che la noia lasci spazio alla depressione e la depressione porti al suicidio.

Per quanto riguarda la spiegazione “il più scientifica possibile” mi sento di indicare il cosiddetto “Happines Suicide Paradox” (2).

Questo paradosso nasce da una ricerca condotta da studiosi dell’Università di Warwick, in Gran Bretagna, dello Hamilton College di New York e dalla Federal Reserve Bank of San Francisco. In seguito se ne sono susseguite altre che hanno approfondito la tematica. Il paradosso, come ormai potere immaginare è questo;

Gli Stati in cui la popolazione è in genere più soddisfatta della propria vita hanno tassi di suicidio più elevati di quelli in cui il livello di soddisfazione è più basso.

Questo è uno studio Americano che ha analizzato principalmente gli stati degli Usa ed è arrivato ai seguenti risultati;

Lo Utah, che ha il massimo livello di soddisfazione, è il nono Stato per tasso di suicidi, mentre New York che si colloca al 45° posto per soddisfazione della vita ha il tasso di suicidi più basso del paese. E ancora, le Hawaii, al secondo posto per soddisfazione della vita, hanno il quinto più elevato tasso di suicidi, mentre il New Jersey, al 47° posto per soddisfazione della vita, è anche al 47° posto per tasso di suicidi.

Gli autori di questo studio osservano che:

le persone insoddisfatte in un luogo felice probabilmente si sentono ancor più bistrattate dalla vita. Questo contrasto può così aumentare il rischio di suicidio. Se le persone sono soggette a oscillazioni di umore, i momenti di abbattimento della vita possono apparire più tollerabili in un ambiente in cui anche altri esseri umani sono infelici.

Questo è l’unico dato che mi sento di dare per certo ed è il take-home message di quest’articolo.

Bibliografia

  1. Andreasson, U., &Birkjær, M. (2018). In the shadow of happiness. NordicCouncil of Ministers.
  2. Daly, M. C., Oswald, A. J., Wilson, D. J., &Wu, S. (2010, February). The happiness-Suicide paradox. Federal Reserve Bank of San Francisco.
  3. Freeman A, Mergl R, Kohls E, Székely A, Gusmao R, Arensman E, Koburger N, Hegerl U, Rummel-Kluge C. A cross-national study on gender differences in suicide intent. BMC Psychiatry. 2017 Jun 29;17(1):234.
  4. https://en.wikipedia.org/wiki/World_Happiness_Report#2020_World_Happiness_Report
  5. https://it.wikipedia.org/wiki/Stati_per_tasso_di_suicidio
  6. James Clifford, I frutti puri impazziscono, 1988, traduzione italiana Bollati Boringhieri, Torino, 1993
L’autore dell’articolo, Salvatore Terralavoro.

Classe 1988, sono uno Psicologo con tante passioni, dalle Arti Marziali alla Scrittura, dai Giochi di Ruolo al Rugby, passando attraverso i valichi delle vicende storiche e ai fiumi della cultura pop. Da sempre affascinato dal potere della narrazione, affamato di nuove storie da ascoltare, da raccontare e da co-creare insieme agli altri. Per me in fondo tutto questo è l’essenza della psicoterapia stessa. Mi interesso principalmente di terapie individuali rivolte a giovani adulti e adulti.

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