Marcello Ravveduto spiega come percepiamo le mafie nei media

La “Public History”, disciplina nata agli albori degli anni sessanta, negli Stati Uniti e in Canada, opera nei settori della conservazione storica, dell’archivistica, della storia orale, dei musei e di altri campi correlati. È un nuovo modo di fare storia in maniera attiva e partecipativa.

“Dicono gli americani che la Pubblic History, è anche Civic engagement (impegno civico) – ha spiegato Marcello Ravveduto – perché lo storico può essere anche militante, rimanendo pur sempre storico, in quanto la ricerca necessita sempre di disciplina e freddezza. Lo storico interpreta fenomeni che nonostante siano ancora vivi nel presente, hanno una radice nel passato e per questo devono godere di una riflessione sul lungo periodo“.

Marcello Ravveduto, docente di “Digital Public History” all’Università degli Studi di Salerno e all’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, vanta numerose pubblicazioni sull’immaginario -e non solo- mafioso, tra cui “Libero Grassi. Storia di un’eresia borghese”; “Il sindaco gentile. Gli appalti, la camorra e un uomo onesto. La storia di Marcello Torre” ed infine, più recentemente, per “Edizioni Gruppo Abele”, “Lo spettacolo della mafia: Storia di un immaginario tra realtà e finzione”, fedelissima ricostruzione di tutti gli aspetti mediali sul tema delle mafie.

Già dal titolo si può evincere, come la mafia nella sua spettacolarizzazione, sia diventata una rappresentazione della società italiana, all’interno dell’immaginario collettivo. La motivazione profonda del libro è radicata nell’immagine che noi percepiamo del mondo mafioso, attraverso serie tv, film, libri, musica, inchieste giornalistiche ed altro. Tutto ciò che noi conosciamo sul tema è filtrato attraverso i media, ossia attraverso la rappresentazione che ne viene fatta dai media, di conseguenza da tutto ciò che rientra nell’immaginario collettivo delle mafie. Possiamo dunque parlare di un vero e proprio “medium mafia”, come una sorta di #hashtag o neologismo in quanto la malavita a furia di essere raccontata, somiglia sempre di più ad un medium. Medium, da un punto di vista storico e antropologico, significa “stare in mezzo” in diversi contesti, quali Stato ed economia, strutture di potere, politica, imprese. La mafia quindi si pone come emblema-medium, in quanto rappresentante di continue mediazioni.

“Il filosofo Anderson – continua Ravveduto- ci ha insegnato che per capire le cose bisogna prima immaginarle, da qui ne deriva il significato più profondo di immaginario collettivo“; un vero e proprio racconto, estraneo alla nostra quotidianità, attraverso il quale la mafia elargisce la sua fama, soprattutto all’estero, roccaforte per antonomasia della “mafia made in Italy”.

La mafia presenta il suo biglietto da visita attraverso un mondo considerato a tratti fantastico, surreale, lontano dalle nostre piccole beghe quotidiane. Una sorta di realtà parallela, in cui vige il male che, sociologicamente parlando, va tenuto a distanza, scarnificato nella sua essenza, perché è possibile conoscere un mafioso nella sua caratterizzazione cinematografica, ma non nella sua reale natura malefica. Immaginare ci è consentito. Ed è questo, probabilmente, il motivo per cui oggi come non mai, le mafie si affermano attraverso e/o come medium. Nella dicotomia bene-male e nel gergo comune, “la mafia viene considerata come una neoplasia, un cancro che distrugge il corpo. Il corpo è sano ma arriva questa malattia che degenera il corpo. È qualcosa che arriva da fuori e ti rovina proprio dall’esterno. Pensiamo alla metafora che viene usata per indicare la peste, o ai mostri, ad esempio”– continua ancora Ravveduto.

“Questo è uno dei motivi per cui i racconti di mafia sono stati soprattutto racconti letterari o cinematografici e poco, invece, racconti scientifici. Narrano un mondo altro, pericoloso, lontano da noi. Siamo in un Paese cattolico e basti pensare a questo per soffermarci sul fatto che il male va tenuto separato dal bene. Nella fattispecie letteraria, parto da quella dell’800 in cui si stabiliscono i primi criteri di narrazione delle mafie. Cerco di comprendere come la letteratura in generale sostanzialmente rimarchi la funzione che avevano la letteratura inglese o francese nel 1800, che raccontano delle classi pericolose. Di nuovo il senso di un mondo mafioso a parte, di cui Alexandre Dumas, è uno dei pionieri.” Un mondo dispotico a tutti gli effetti da tenere a debita distanza.

“Il cinema italiano, dagli anni ’60 in poi, ha assunto un ruolo fondamentale per la trasmissione dell’immaginario mafioso. In Italia dal 1948 al 2018, sono stati girati 337 film sulle mafie, circa 40 film ogni 10 anni, quindi circa 4 film all’anno.” Statistica, tra l’altro che Ravveduto ha ricostruito autonomamente. “Rispetto al modo in cui cambia la storia del nostro paese, s’innalza l’attenzione dei media nei riguardi della narrazione del fenomeno. Esistono –continua Ravveduto– due date cardini in cui aumentano in maniera esplosiva le narrazioni cinematografiche sulla mafia. Nello specifico le date da tener presente, sono il 1982, anno in cui furono uccisi Pio La Torre e Carlo Alberto Dalla Chiesa e il 1992, anno delle stragi di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Sono anche altre le date che hanno un riverbero nella narrazione mafiosa, ma di sicuro, queste sono le più emblematiche”.

Nel momento in cui, invece, ci rapportiamo alla musica in relazione alla malavita, non dobbiamo esclusivamente indirizzarci al genere neo-melodico. Sarebbe riduttivo. È necessario sottolineare di come si sia evoluta la musica nella narrazione criminale negli ultimi 10-15 anni. “In passato, l’autore neomelodico tendeva a giustificare l’appartenenza a certi mondi criminali, giustificandola in nome della povertà. Oggi la situazione cambia radicalmente. La medialità si esprime attraverso nuovi generi musicali.” Tra i più ambiti: la Trap, di cui uno dei massimi esponenti è il “giovane fuoriclasse” salernitano, Capo Plaza.

“Nuovo giorno, nuovo arresto/ Io ci credo nel successo/ Nella gabbia io non ci finisco/ Muoio da leggenda come Jackson”.

Un vero e proprio testamento che conta 69 milioni di visualizzazioni su YouTube. Un mix di surrealismo gangastariano di continui rimandi espliciti alle mille dinamiche del malaffare, di sfoggi linguistici e di appartenenza che reclamano continui vuoti.

“L’idea del male –continua Ravveduto– ormai appartiene alla normalità della vita. Il digitale innova il gergo linguistico e non solo. Anche nei social, l’immagine diventa gergale, diventa parte del fenomeno del narcisismo, dell’identificazione del sé. Altro aspetto non trascurabile, è l’utilizzo delle emoji, adoperate per rimarcare da un punto di vista emozionale, la propria appartenenza. Ci sono molte foto di ragazzi legati alla malavita che si baciano sulla bocca e che segnano la fotografia con l’emoji della siringa con la goccia di sangue. Ecco, questo è un modo per sottolineare una certa fratellanza sanguigna. In origine, i giapponesi hanno inventato l’emoji della siringa per indicare che è in corso un’analisi del sangue. Oggi viene risemantizzato il messaggio per tutt’altri scopi.”

Tra i vari lavori che quotidianamente svolge in qualità di studioso, Marcello Ravveduto ha speso molto tempo sulla toponomastica connessa alle vittime della mafia. Ma possiamo parlare di qualcosa di simile anche qui al Sud?

“È proprio il mezzogiorno in cui sono maggiormente diffusi dal punto di vista della toponomastica i nomi delle vittime della mafiaha risposto Ravveduto – Naturalmente i luoghi più esposti da un punto di vista della vittimizzazione della mafia, purtroppo si trovano al Sud e in qualche regione in maniera particolare. È plausibile che anche in alcune realtà settentrionali si ricordino questi eventi perché sono diventati emblema di una lotta nazionale. Nel Nord però assume un significato e al Sud un altro. Cioè, al Nord è un’adesione a dei valori di democrazia e di libertà, mentre al Sud, la toponomastica è più legata ad un ricordo nei riguardi di chi ha vissuto dentro un territorio. Abbiamo il caso emblematico di Marcello Torre, il cui nome fu messo e poi dopo quattro giorni, tolto. Vi è un’intenzione precisa”.

Ma come mai si preferisce distogliere lo sguardo dai vari mondi fratturati, dolorosi ma onesti che ricordano le vittime di mafia per concentrarsi verso realtà sfarzose, in cui vige l’ostentazione più totale? Perché si è data più importanza al matrimonio della Rispoli e Colombo, per citare un esempio acclarato, e meno all’evento organizzato da “Libera” nello stesso giorno/luogo? – evento tra l’altro annullato vergognosamente – Perché tanta emulazione da parte della gente comune.

“Siamo in un fenomeno di divismo prêt-à-porter – spiega Ravveduto – Loro si sentono come dei divi. Ogni volta che noi ci facciamo un selfie, ci sentiamo dei divi. Questo divismo raggiungibile, afferrabile, rispetto a quello dei grandi nomi inafferrabili, rende molte persone protagoniste, rispetto ad un popolo che sogna la celebrità. Oggi, si è accentuata una dinamica molto narcisistica del sé che occupa la maggior parte degli spazi nella narrazione dei social. È una narrazione che non vuole essere più di nicchia, negletta ma mainstream. Vi è un vero e proprio tentativo di essere riconosciuti a livello nazionale. La maggior parte di coloro che vengono da quel mondo neo-melodico hanno dovuto abbandonare la lingua napoletana per cantare in italiano. Molti di questi sono scomparsi, tranne Gigi D’Alessio e qualcun altro”.

Riproduzione riservata ©