Malatja: la storia di una band che cambiando è rimasta sempre la stessa

1993. I Nirvana incidono il loro ultimo disco, In Utero, prima del suicido di Kurt Cobain. Con Pablo Honey esordiscono i Radiohead. Max Pezzali incide “Come Mai”, che lo catapulterà di diritto nella storia della musica italiana. In questo infinito oceano musicale emergono i Malatja, band nata dall’incontro tra Paolo Sessa e Camillo Mascolo, in Campania, ad Angri per essere precisi, in provincia di Salerno. E sarà proprio la provincia protagonista assoluta delle loro canzoni. Saranno le realtà piccole, degli outsiders ad essere raccontate da Paolo Sessa e soci.

Da quel 1993, però, sono passati ben 26 anni. Tante cose sono successe. Si sono susseguiti numerosi singoli – citarli tutti sarebbe impossibile, basti ricordarne alcuni come l’emblematico “Munnezz”, “O’ Mazz e sciure”, “La’ Do’ Fernisce ‘O Sole” – numerosi album – “Munnezz”, “Caparott”, “48”, “Stracciacore”, “Ruminogioia” – numerosi live – hanno condiviso il palco con artisti del calibro di Eugenio Bennato e Taranta Power, Tre allegri ragazzi morti, Malfunk, 24 Grana, Francesco Tricarico.

Tante cose sono cambiate anche nel mondo, eppure i Malatja sono rimasti (quasi) gli stessi. La loro impronta punk e il contenuto ironico e sferzante dei loro testi continuano ad essere le colonne portanti della loro carriera. Sono il power trio di sempre (sebbene il bassista sia cambiato più volte negli anni, prima di arrivare all’attuale formazione con Daniela De Martino). Sono ancora gli adolescenti di una volta ogni volta che suonano, sebbene siano cresciuti, siano oggi più sensibili, più malinconici. Sono sempre legati ai centri sociali, il cui odore di dosso non se lo sono tolti mai. “Quando siamo nati dal punto di vista artistico, intorno a noi accadevano molte cose in politica, prime tra tutte le occupazioni dei centri sociali. C’era un fermento politico fortissimo, che oggi non appartiene più alla musica. Noi ne eravamo parte ed eravamo il gruppo residente del Centro Sociale Autogestito Macello. Abbiamo vissuto la forza dei centri sociali, con tanto di sommosse di polizia. La nostra matrice artistica è rimasta quella. E ne sono fiero”: parola di Paolo Sessa.

Ma una cosa va detta. Per quanto la loro anima resti sempre intatta e la loro testa sia la stessa di sempre, le loro idee sono diventate più profonde. Il processo di maturazione – artistica e personale – che hanno subito è evidente (ascoltare “Ruminogioia” per credere). Del resto ci vuole una certa maturità – sommata ad una grande dose di spirito critico ed intelligenza – per riuscire, partendo da un qualcosa che sembra essere molto lontano dall’amore come l’Ikea, a fotografare le coppie di oggi, spesso così finte, e la società odierna, così artificiale, quasi “preconfezionata”. È molto interessante lo sguardo con cui osservano la società, mai critico, ma sempre e solo interessato a comprenderla. Come anche il loro modo di analizzare le epoche, di capire da cosa ognuna di esse sia caratterizzata, come poi arrivi a degenerare, perché “la degenerazione è irresistibile”. È affascinante il modo con cui vedono la band, come se fosse una famiglia, che genera tanti figli, che sono le canzoni, di cui bisogna prendersi cura, perchè “la canzone è come a nu ninnill, se lo ami cresce bene, altrimenti esce pazzo”.

Era il 1994 quando cantavano “Il Sud non morirà”. Il Sud, nel frattempo, in questi 25 anni non è morto. È ancora vivo, tra alti e bassi. E finchè ci saranno band capaci di cantarlo, di raccontarlo, di farlo vivere anche a chi non ci è mai vissuto, lo sarà sempre.

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