Negli ultimi venti anni, la popolazione italiana è cresciuta di 1 milione e 990 mila residenti, un dato che nasconde due tendenze territoriali contrapposte. Nel Mezzogiorno si è registrato un calo di oltre 673 mila abitanti a fronte di un aumento di 2 milioni e 663 mila residenti nel Centro-Nord. Il calo della popolazione nel Mezzogiorno, dovuto anche all’emigrazione interna verso le regioni del Centro-Nord, è stato solo in parte compensato dalle migrazioni internazionali. La tendenza alla diminuzione della popolazione, avviatasi negli anni dieci, si è aggravata negli ultimi due anni per gli effetti della pandemia. Alla fine del 2021 risiedevano in Italia 58 milioni e 983 mila abitanti, 253 mila in meno rispetto all’inizio dell’anno. La perdita, sia in termini assoluti che relativi, è risultata più intensa nel Mezzogiorno: -130 mila unità (-6,5‰) a fronte di -122,8 mila (-3,1‰) nel Centro-Nord. La diminuzione della popolazione ha riguardato solo gli italiani (-7,5‰ nel Mezzogiorno e -3,8‰ nel Centro-Nord); la presenza straniera è risultata in crescita.
Il rapporto Svimez evidenzia come nei prossimi decenni la struttura demografica italiana tenderà a concentrarsi ulteriormente nelle classi di età anziane, determinando una vera e propria “recessione” demografica. Nel 2070 tutto il Paese sarà meno popolato e più vecchio. Tra il 2021 e il 2070, nel Mezzogiorno si concentrerà oltre la metà delle perdite nazionali, a fronte di una popolazione che
pesa poco più di un terzo sul totale, determinando un deficit demografico aggravato dai flussi migratori verso il Centro-Nord. Il Sud da area più giovane diventerà la più invecchiata e perderà 6,4 milioni di abitanti contro i 5,1 milioni del Centro-Nord.
Il persistente dualismo economico e sociale del Paese ha alimentato un continuo flusso di emigrati dal Mezzogiorno verso il Centro-Nord. Con riferimento alla componente italiana dei residenti che emigrano, si può rilevare come dal 2002 al 2020 abbiano lasciato il Mezzogiorno quasi 2 milioni e 500 mila persone. Si è trattato, per oltre la metà, di giovani di età compresa tra i 15 e i 34 anni, e per un quinto di laureati. Il flusso in direzione opposta è stato di circa 1 milione e 370 mila. Nel 2020, anno in cui si è osservato un calo generalizzato della mobilità interna dovuto al Covid-19, si sono trasferiti al Centro-Nord oltre 108 mila meridionali, 26 mila in meno
dell’anno precedente. La Lombardia è da sempre la regione di destinazione preferita da chi lascia una regione del Mezzogiorno (oltre il 27% del totale), segue l’Emilia-Romagna (17,3%) e il Lazio (15,9%).
L’indice strutturale di dipendenza demografica, dato dal rapporto tra il complesso della popolazione non attiva (fino ai 14, oltre i 65 anni) e la popolazione compresa tra i 15 e i 64 anni, evidenzia l’incidenza complessiva della popolazione economicamente non autosufficiente «sostenuta» dalla popolazione in età da lavoro. In questa configurazione, la demografia dice molto su svariati aspetti della dinamica prospettica del sistema economico. Ma non basta a dare una realistica misura della effettiva sostenibilità dinamica del sistema perché la dimensione puramente demografica non considera il tema della sua sostenibilità economica. Certamente, infatti, l’indice trutturale di dipendenza demografica dà conto dell’impatto della riduzione del tasso di fertilità, dell’aumento della speranza di vita: consente, infatti, di articolare in dettaglio la dinamica territoriale e di misurare l’impatto prospettico determinato dall’emigrazione. Ma tutto ciò, che pur dipende da fattori di contesto anche economici e di lungo periodo, non coglie gli effetti e i fattori di interazione con l’economia costantemente in azione, e rigidamente condizionanti, la cui considerazione prospetta i più seri e immediati problemi di sostenibilità dinamica. Per evidenziare questa dimensione è indispensabile affiancare alla dipendenza demografica appena descritta, che
possiamo definire come dipendenza «virtuale», o «nozionale», un indice di dipendenza demografica ed economica «effettiva». A misurare quanto sia rilevante la divergenza tra virtuale e reale è sufficiente qui limitarsi a una semplice qualificazione dell’indice demografico ponderando la forza lavoro con il tasso di occupazione. Il che significa modificare il denominatore dell’indice di dipendenza demografica, considerando solo la forza lavoro occupata tra i 15 e i 64 anni, perché solo essa può effettivamente contribuire a sostenere il peso della non-forza lavoro.
L’Italia è nel pieno di una crisi demografica tra le più profonde e durature nell’ambito dei paesi del mondo occidentale. Ma gli effetti negativi più intensi si riscontrano e si aggraveranno nel Mezzogiorno. Le politiche da introdurre dovrebbero in primo luogo avere come obiettivo di medio termine l’innalzamento del tasso di fecondità a 2,1 figli per donna (un risultato che l’Italia non raggiunge dal 1976). Sul fronte della mobilità è necessario arrestare l’esodo dei giovani.