Oggi è una data importante, anche se poco pubblicizzata: al teatro Gobetti di Torino, il 10 dicembre del 1847, “Risuonò – come recita la lapide posta in loco nel 1930 – l’inno profetico di Goffredo Mameli”, patriota e poeta, morto nel 1849 (a soli 22 anni) mentre combatteva nel tentativo di difendere la neonata Repubblica Romana. Fervente sostenitore e seguace di Mazzini, nell’autunno del ’47, quando già si respirava l’aria ispiratrice dei moti rivoluzionari che avrebbero sconvolto l’Europa nel biennio successivo, scrisse una poesia (dal sapore evidentemente repubblicano), eternata dal sodalizio con le note del suo concittadino (genovese anche lui) Michele Novaro, il quale, come riporta l’amico e compagno patriota di Mameli, Anton Giulio Barrilli, pianse alla prima lettura di quelle parole e, con gli occhi ancora bagnati, si mise a ricamarvi intorno la melodia che tutt’ora conosciamo.
Apprezzatissimo da un grande musicista come Giuseppe Verdi, fu uno dei più amati canti risorgimentali, ma, dopo l’Unità (ad eccezione del ruolo di rappresentante dell’Italia affidatogli dallo stesso Verdi nel suo Inno delle Nazioni) fu inizialmente relegato in una posizione di marginalità, essendo considerato troppo poco conservatore dalla corte sabauda e, allo stesso tempo, troppo poco rivoluzionario da socialisti e anarchici; però, la grande ispirazione patriottica del Canto degli Italiani (o di Fratelli d’Italia) non poteva restare obliviata a lungo e, infatti, tornò alla ribalta già durante la guerra italo-turca dell’inizio degli anni ’10 e nel corso della Prima Guerra Mondiale. Ovviamente, essendo ispirato ad ideali repubblicani, il Canto fu volontariamente adombrato dal regime fascista, tornando alla ribalta nell’Italia meridionale liberata (od occupata, dipende da come la si vuol vedere) dagli Alleati dopo l’armistizio del ’43 e spargendosi, poi, idealmente, verso il Nord, occupato dai nazi-fascisti, fino al fatidico 25 aprile del 1945.
Divenne l’inno provvisorio della neonata Repubblica Italiana già dall’ottobre del 1946, su proposta del ministro della Guerra Cipriano Facchinetti, ma, criticato da più parti, si è tentato a lungo di sostituirlo, ora col Va, Pensiero di Verdi, ora con la Canzone del Piave (già inno dal 1943 al 1945), ora con un nuovo componimento: nessuno, tuttavia, dopo tanti anni, è mai riuscito a spodestare il Canto degli Italiani, che è finalmente diventato l’inno ufficiale della nostra Repubblica solo nel dicembre del 2017.
Oggi, prendendo spunto da Mameli, verrebbe da chiedersi (invece che da esclamare, come fece lui quasi 200 anni fa) “L’Italia s’è desta?” Ci siamo svegliati dal lungo torpore che ci ha portati alla situazione politico-sociale odierna? Abbiamo finalmente accettato di fare i conti con i demoni di una nazione in cui i più si disinteressano e nella quale quei pochi che dovrebbero rappresentarci (e che, in effetti, rappresentano l’indolente ed arrivista italiano medio), invece, hanno deciso di rappresentare solo i propri interessi e le proprie ambizioni di potere?
Probabilmente non è ancora possibile rispondere a questi interrogativi, ma, in un periodo così difficile a livello sanitario (e non solo), fa sempre bene prendere spunto dal passato (dai suoi buoni insegnamenti, ovviamente) e tentare di imitare la tenacia di chi ci ha preceduti, impegnandosi in vista di un futuro migliore.