L’imprescindibilità del Reddito di cittadinanza

L’osservazione ormai logora proveniente dagli ambienti confindustriali o dalla spicciola e sprezzante insofferenza dell’esercito di imprenditori privati della possibilità di manodopera a basso costo è ridondante. A loro parere, una folta platea di percettori del Reddito preferisce continuare a godere dell’assistenza dello Stato anziché rispondere alle proposte di lavoro. La domanda sorge spontanea: ma se una persona, di sana e robusta costituzione, magari in giovane età, preferisce ricevere (con tempistiche variabili) una cifra mensile che nel migliore dei casi, in presenza di un affitto da pagare, ammonta a 780 euro (a livello nazionale la media dell’importo erogato è di 573 euro), è perché non osa più alimentare il proprio progetto di vita o perché date le circostanze e l’epoca che stiamo vivendo ha bisogno di un aiuto per sostenere le spese essenziali e badare ai bisogni primari? E, soprattutto, perché dovrebbe rifiutare un lavoro per accaparrarsi il minimo indispensabile ai fini del proprio sostentamento? La risposta è scontata: perché nel paesaggio sociale gelido abbonda il lavoro sfruttato e sottopagato, una lama infilzata nella carne viva delle persone. Al Sud il lavoro è disincentivato perché retribuito peggio della soglia massima del Rdc, e non necessariamente protegge dalla povertà. Fuoriuscendo un attimo da un discorso più ampio sulla privatizzazione e sullo smantellamento dello stato sociale, quindi sui cardini della società neoliberista, occorrerebbe soffermarsi sul Paese reale e sulle sue urgenze, Che albergano, inevitabilmente, nei numeri.

Secondo le tabelle Eurostat riferite ai dati del 2019, dunque prima dell’emergenza Covid, la percentuale di coloro a rischio di esclusione sociale, vivendo in famiglie a bassa intensità di lavoro o con problemi di deprivazione materiale, in Campania è pari al 49,7%. Su un milione di famiglie che hanno percepito il Reddito o la pensione di cittadinanza a febbraio 673.343 sono residenti al Sud, oltre i due terzi del totale. E’ quanto emerge dall’osservatorio dell’Inps sul Reddito e la pensione di cittadinanza appena diffuso. La sola Campania con 229.024 famiglie con il Reddito supera largamente i nuclei percettori dell’intero Nord del Paese con quasi un quarto dei sussidi totali e un importo medio di 628,89 euro.

La povertà ha rotto gli argini: l’Istat ha contato un milione di poveri in più in Italia nel 2020. Se la grave emergenza economica e sanitaria non si è ancora trasformata in una crisi sociale senza precedenti è anche grazie al Reddito di cittadinanza, che ha avuto un ruolo decisivo nella riduzione dell’area di rischio povertà e esclusione sociale. Il contraccolpo colossale prodotto dall’emergenza sanitaria su una società già gravemente impoverita e precarizzata ha fatto precipitare tutti gli indicatori a un livello mai visto anche dopo la crisi del 2008, quando la povertà è esplosa. Da allora non ha mai smesso di crescere, tranne per il breve periodo seguito all’introduzione del reddito. In Italia le famiglie beneficiarie sono balzate del 30% nell’anno della pandemia: da 940mila a 1,2 milioni. Se a queste si aggiungono quelle del Reddito di emergenza, si arriva a un totale di 1,5 milioni di famiglie equivalenti a 4,3 milioni di persone bisognose. Secondo i dati diffusi dall’Inps, i richiedenti del Rdc crescono del 3-5% al mese. E il 90% di chi ha percepito il Reddito l’anno precedente, ha poi rinnovato. Un tasso di permanenza altissimo, segno dell’emergenza sociale. La pandemia nel 2020 ha ridotto i redditi degli italiani, ma grazie al Rdc e alle politiche sociali di contenimento messe in atto, il calo del reddito nel 2020 è stato inferiore del 51% rispetto a quello che sarebbe potuto essere in assenza di politiche anti covid.

Nell’esaminare gli effetti della misura non si può prescindere dall’evidenziare le lacune. Un reddito, ad esempio, deve garantire il diritto ai consumi essenziali, anche perché molti dei suoi beneficiari non sono in grado di lavorare. Per come è stato pensato, il Reddito di cittadinanza difficilmente intercetta i lavoratori working poor, quelli cioè che hanno un reddito inferiore a una determinata soglia di povertà a causa di lavori a basso reddito, perché hanno una casa di proprietà o dei risparmi. E poi il criterio dell’Isee, unico nella sua assurdità. Per ottenere il beneficio bisogna presentare la dichiarazione dei redditi di due anni prima. Ma la valutazione della situazione economica andrebbe effettuata a partire dal reddito corrente, e la crisi attuale lo dimostra ampiamente: se chi ha chiuso bar e ristoranti, o ha perso il fatturato da partita Iva, portasse la dichiarazione dell’anno precedente sarebbe escluso. Ed è per questo che è stato approvato in fretta e furia il Rem, Reddito di Emergenza, per colmare un vuoto probabilmente generato dalla necessità di selezionare in maniera radicale la platea. Pur di rientrare nei costi e di approvare una misura bandiera (che da sola riesce a giustificare i benefici dell’esistenza stessa del Movimento 5 Stelle), il criterio dell’Isee ha tagliato fuori un’ampia fetta di potenziali beneficiari.   

Il nuovo ministro del Lavoro e delle Politiche sociali, Andrea Orlando, nella cornice del Decreto Sostegni, ha lavorato per lo stanziamento di un miliardo in più per irrobustire il Rdc insieme a un sistema di politiche attive per intervenire sul difetto storico della misura: la mancanza di comunicazione tra il contrasto alla povertà e il contrasto alla disoccupazione. Le modifiche prevedono la sospensione del Rdc, senza decadere, a quanti troveranno un lavoro retribuito sopra la soglia incassata con il Rdc, per poi riprendere in automatico dopo la fine del contratto. Si tratta, dunque, di una sospensione del beneficio in caso di uno o più contratti a termine che comportino un aumento del reddito familiare, fino al limite massimo di 10.000 euro annui, per la durata del contratto e fino a un massimo di 6 mesi. 

I molteplici rischi di questa operazione si concentrano innanzitutto nell’impossibilità di creare lavoro se non sottoforma di estensione del precariato. Un conto è creare politiche attive di formazione con una finalità di inserimento permanente nel mondo del lavoro, un altro è gettare in pasto ad aziende e privati, per qualche settimana o poco più, lavoratori senza prospettive. Uno sbocco occupazionale stabile è l’unica via d’uscita per la quota dei beneficiari del Reddito di cittadinanza in grado di lavorare. Politiche attive serie valorizzerebbero le competenze già accumulate e offrirebbero la possibilità di formarsi, di ottenere qualifiche. Magari attraverso corsi di formazione che permettano di intercettare le nuove occupazioni: nel digitale e nell’ambiente, ad esempio. Aggiornare le conoscenze individuali per renderle compatibili con le nuove espressioni professionali e i nuovi profili richiesti favorirebbe l’incremento dell’occupazione, la crescita sostenibile e soprattutto la qualità dei posti e delle condizioni di lavoro. E consentirebbe, agli esclusi, a chi ha patito la crisi economica globale prima e la pandemia poi, e a chi non ha mai goduto di privilegi, di avvalersi di una rete di protezione sociale e nello stesso tempo di una bussola per orientarsi nelle profonde trasformazioni in atto.

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