Porte girevoli, dal nove maggio 1978 al nove maggio 2020. Una data simbolica consegna alla storia i due volti di una liberazione, da Aldo Moro a Silvia Romano: uguale epicentro, diversi mandanti, diversi destini. Da via Fani all’aeroporto di Ciampino corrono 24 km di distanza, la bisettrice è rappresentata dallo stupore dell’opinione pubblica nel constatare il materializzarsi dei volti tenuti in ostaggio: da un lato il plaid sforacchiato – riposto nel sarcofago di una Renault 4 – in cui giace esanime il leader della DC, dall’altro il lungo velo che fa risaltare il sorriso della cooperante liberata.
Destini diversi, durate diverse, epoche diverse, apologia del terrore e apologia della vita. Eppure le reazioni del popolo italiano, un tempo sommesse e rispettose nelle disgrazie, si trasformano in sonori rigurgiti anche nei confronti di quello che, a tutti gli effetti, rappresenta un lieto fine. Qualche tempo fa la liberazione di Giuliana Sgrena, cronista impegnata sul fronte iracheno, scatenò risposte simili in un panorama comunicativo che si apprestava ad abbandonare le coste dell’umanità.
Cosa è effettivamente cambiato nello spirito degli italiani? Cosa induce tanto livore?
Dalle 14 in punto del 10 maggio – ora in cui il carrello dell’aereo dei servizi segreti ha impattato l’asfalto di Ciampino – un continuo fiorire di notizie non notizie, un corollario di dubbi che sfonda le barriere dell’informazione per trasformarsi in chiacchiericcio: Silvia si è convertita, si è sposata, è incinta, indossa il velo islamico, quanto è costato il riscatto?
Salvini impugna la canna e getta l’amo, predica sobrietà (proprio lui che chiese pieni poteri sorseggiando Mojito dal balconcino di una cubista in Riviera) mentre i suoi accoliti si lanciano in paragoni iperbolici e furiosi (cito testuali parole): Silvia Romano indossa la veste del nemico islamico, è come se un deportato di Auschwitz indossasse la divisa delle SS. Qualcuno – di solito i più grandi ammiratori del regime fascista – dimentica che, in effetti, un tale di Predappio indossò la divisa della Wermacht per sfuggire (dal gran consiglio al gran coniglio il passo è breve) alle mareggiate rosse della storia contemporanea.
Fatto sta che, alla prima occasione per mostrarsi migliori, gli italiani hanno fallito. Nel giro di 48 ore i bacilli della pandemia si replicano assumendo sembianze di malanni più sani e destrorsi: l’islamofobia.
Il web, come sempre, diventa slargo ideale per lapidare ogni minimo movimento giudicato anticonvenzionale, sospetto. A calcare la mano – i primi a farlo – gli autoreferenziali professionisti dell’informazione Mediaset. Vergognose esternazioni delimitano il confine fra ciò che è decente e ciò che non lo è, armano un manipolo di commilitoni che aspettano l’ora del rancio per divaricare le labbra e sputare sentenze. Tempi duri, la nazione si riscopre avventuriera di nuovi sport e nuove divisioni.
Sorge una nuova disciplina, un nuovo modo di affrontare il mondo. Dalla “trincerocrazia” (partecipa al gioco solo chi si è distinto in trincea) tanto cara al duce ne è passato di tempo: 101 anni per la precisione. Irrompe oggi la “tifocrazia”: o qua o là. Dottrina attraverso cui si deve per forza appartenere a una barricata, prendere posto sugli spalti e tifare per la propria fazione. Non esistono mezze misure, un evento esclude sistematicamente l’altro: se sei islamica non puoi essere italiana, se sei italiana non puoi essere islamica, se ti converti ad un’altra religione diventi ingrata, se dimostri umanità perdonando chi ti ha privato della libertà diventi amichetta dei terroristi. O questo o quello, o punto o virgola, o nero o nero. Stop.
I prestigiosi rotocalchi nostrani hanno offerto titoli da ventennio, purtroppo per loro dai Patti Lateranensi – abbraccio ideale fra Mussolini e Pio XI atto a stuccare la breccia di Porta Pia – sono passati ben 91 anni e tre mesi (ad essere pignoli). Nel mezzo una spirale progressista che non ha avviluppato proprio tutti: l’art. 19 della Costituzione che determina la libertà di culto, quel benedetto art. 21 che ha concesso libertà d’espressione anche a coloro che trasformano un mugugno da osteria in un’apertura di giornale. Stavolta – come il premier Conte qualche tempo fa – siamo costretti a fare i nomi: Sgarbi, Sallusti, Feltri, Giordano, Senaldi, Porro, Del Debbio. Con loro tanti altri che soffrono di una sindrome specifica. Non è quella di Stoccolma, bensì quella del Tennessee. Sintesi del più becero conservatorismo ideologico, in parole spicciole la morte cerebrale dell’evoluzione umana.
Scusaci Silvia, mentre scrivo si mormora che, a causa delle minacce, potrebbe esserti assegnata la scorta. Per te, come per Liliana Segre, rappresenta l’estrema unzione alla civiltà.
Scusaci davvero, il feticismo italiano per l’orrore – quello che, a distanza di anni, brinda ancora a Cogne e Garlasco – ti avrebbe preferita emaciata, pallida e col volto scavato dalla sofferenza. Ti avrebbe preferita rinchiusa, a pane e acqua, in una cella di due metri quadrati. Magari qualcuno avrebbe preferito una gigantografia su cui piangere, silenziata per sempre da una mezzaluna di piombo.
Invece tu, spalancando il portellone di un volo dell’Aise, hai sorriso indossando la nuova fede ed un nome che trasuda vita e speranza: Aisha.
Come ti sei permessa? Noi quel sorriso non lo meritiamo.