Le derive della crisi permanente

Alla logica emergenziale, frutto di politiche miopi o di un approccio opportunistico finalizzato a coprire il vuoto di visioni, è subentrato, nel volgere degli sconvolgimenti epocali degli ultimi anni, tra crisi economica, terrorismo e pandemia, uno stato di grave urgenza, una condizione di vera emergenza destinata a ridisegnare ogni scenario.

L’emergenza ha prodotto un effetto temporalità capace di alimentare la dittatura del presente, incrementando ulteriormente l’impotenza di governanti il cui mandato sembra ridursi a politiche di provvedimento, lontani anni luce da qualsivoglia opera riformatrice. Nella situazione di eccezionalità assistiamo alla scomparsa definitiva del futuro rinunciando al cambiamento e soprattutto alla possibilità di proiettare i problemi sul lungo termine. Innescherà un meccanismo autoalimentante: trascurare la strutturalità dei fenomeni determinerà problemi sempre nuovi da risolvere nell’immediato.

Il linguaggio della crisi, spalmato sul lungo periodo, offre una sponda alla normalizzazione dello stato d’emergenza, altera la vita democratica, complice un sistema di restrizioni che autorizza a sospenderne i processi: un rischio che agita la minaccia di spinte autoritarie, tentazioni dietro l’angolo, proprio nel frangente storico in cui nell’est del vecchio continente prosperano posizioni illiberali e derive liberticide.

La pandemia e lo stato di emergenza hanno accentuato l’egemonia di un linguaggio violento, securitario, repressivo, respingente, di una società sempre meno tollerante nei confronti degli ultimi, delle minoranze, dei migranti. Un tessuto sociale dilaniato dalla crisi è estremamente permeabile alle speculazioni. Diventa terreno fertile per quelle forze che attentano alla coesione sociale del Paese. La rete solidale del primo lockdown ha lasciato spazio a una disgregazione dell’insieme, a una parcellizzazione della vita pubblica, divisa per categorie, corporazioni, mestieri, limiti geografici e soglie anagrafiche. Sono sorti così gli egoismi, gli interessi particolari, un frazionamento delle esigenze: tutti elementi in grado di azzerare la lotta comune. I predicatori populisti sono sempre dediti a cavalcare rabbie, paure, frustrazioni, a contrapporre un concetto molto strumentale di libertà allo spauracchio sbandierato della “tirannia sanitaria”. Per il sovranismo modellato dalla crisi pandemica, libertà significa smarcarsi dal rispetto di ogni regola, dal legame naturale con la società, e dunque da ogni vincolo nei confronti altrui.

E’ avanzata, in maniera ancora più veemente rispetto al passato, l’idea unica di protezione fisica della vita, a discapito anche della dignità della persona. Un passaggio che evoca e rafforza la tesi di Bauman sulla nuova strategia di dominio, fondata sulla deliberata spinta verso l’ansia permette alle autorità stabilite e al potere di turno (e anche a una certa narrazione) di venire meno alla promessa di garantire collettivamente la sicurezza esistenziale, per accontentarsi di una sicurezza privata, personale, fisica. Il passaggio si è definitivamente compiuto con l’emergenza sanitaria: i legami tendono a frantumarsi, lo spirito di solidarietà si indebolisce, la separazione e l’isolamento sostituiscono il dialogo e la cooperazione. La chiusura si appropria di ogni tensione verso l’apertura.

Il lessico della crisi incide anche sulla percezione della realtà. E anzi la condiziona a partire dalle trame ordite per amplificare, senza il supporto di dati e fatti, la portata di alcuni fenomeni. L’angoscia delle chiusure e la costante esposizione al circolo mediatico e virtuale, condito da distorsioni, fake news e disastri comunicativi, ha spianato poi la strada a un disorientamento dell’opinione pubblica.

La crisi permanente, per sovrapposizione, rischia di indebolire, se non di neutralizzare, qualsiasi istanza di cambiamento sociale. Un paradosso, in una fase storica in cui, oltre a un diffuso disagio civile e democratico, emergono in tutta la loro dirompenza le diseguaglianze. Nella vita così come nella difesa della vita stessa minacciata dal nemico invisibile. Nella maggioranza dei Paesi europei, e nel mondo intero, i tassi di mortalità per Covid-19 sono il doppio tra le persone meno abbienti: la voragine sociale della pandemia risiede anche nelle scarse possibilità di contrastare il virus. Dati inequivocabili che invocano un nuovo modello di società e interventi strutturali in grado di ridurre le diseguaglianze. Uno scenario incapace di generare nuove prospettive per il futuro rischia di riprodurre il passato.

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