Una vittoria oltre le aspettative può essere determinata da molteplici fattori, non necessariamente riconducibili ad un cambio di paradigma. Il centrosinistra esce fortificato dalle urne, un risultato sorprendente ma ancora monco: sul bilancio finale pesano quei due ballottaggi di Roma e Torino che potrebbero ridimensionare, se non vanificare, il trionfo odierno. Il Pd ha trainato il successo rendendosi artefice di mosse particolarmente azzeccate sul piano politico-elettorale, spendendo la sua classe dirigente, esistente a differenza degli altri schieramenti, riuscendo a rinsaldare l’alleanza giallorossa (nelle tre grandi città conquistate al primo turno, democratici e pentastellati hanno affrontato insieme la battaglia).
Il Pd, erede della più grande famiglia politica italiana, in questi anni ha ricoperto il ruolo di instancabile tessitore. Dinamiche politiche relegate alle trame di palazzo, sapientemente condotte allo scopo. Ingegneri di palazzo, con il loro bagaglio di esperienze, un’arma per garantire gli equilibri del Paese in mezzo al caos. Gli elettori delle città hanno riconosciuto al Pd questa funzione. La virata a sinistra dei socialdemocratici tedeschi, primo partito in Germania, ha sicuramente spronato Letta a spostare il baricentro del partito a sinistra. I diritti del lavoro, l’attenzione al sociale e alla riduzione delle diseguaglianze sono rientrati all’interno della narrazione politica, nel frattempo utile a ricollocare le tematiche nella scala di priorità. Sui temi decisivi e fondanti per la sinistra, il Pd dovrà recuperare terreno e non basterà questo primo approccio.
Ma da questo voto non si possono trarre troppe valutazioni di carattere nazionale e non soltanto perché le elezioni comunali riflettono situazioni e contesti locali. Bisogna considerare la geografia del voto: le aree metropolitane e i centri urbani tradizionalmente premiano le forze progressiste, a differenza della provincia e delle aree rurali. Una tendenza mondiale ormai consolidata.
Ancora una volta, e in maniera ancor più marcata rispetto alle scorse consultazioni, la tendenza politica principale coincide con l’astensione. La tornata elettorale si è consumata nell’indifferenza delle periferie, esaurito lo slancio populista dapprima appartenuto al M5s e poi ai sovranisti. Le periferie hanno disertato le urne, a Napoli come a Roma e negli altri centri al voto, acuendo il distacco dal centro. L’annoso senso di sfiducia si è tramutato in indifferenza: i dimenticati, abbandonati dall’agenda politica, non hanno trovato un veicolo di protesta, privati dell’illusoria adesione da brandire per urlare il proprio malessere. Il centrosinistra nel corso della campagna elettorale ha battuto le periferie in maniera maggiore rispetto a prima ma per scrollarsi di dosso l’etichetta di forza politica non più popolare, maggioritaria solo nelle Ztl, bisognerà saper parlare alle periferie, reintrodurle nell’agenda politica, fornire risposte ai bisogni di aree in difficoltà.
Ancor prima di tirare in ballo l’ormai ultra-ventennale crisi di rappresentanza, occorre anche comprendere cosa è diventata la gestione della cosa pubblica in alcuni contesti. A Salerno, ad esempio, governata da trent’anni dallo stesso sistema di potere, la natura clientelare delle dinamiche, le liste presentate per fare numero, zeppe di personaggi privi di strumenti e prelevati per rimpolpare i numeri, gli episodi incresciosi di intimidazione (al vaglio delle autorità giudiziarie) e il sottile ricorso all’infamia del voto di scambio, hanno prodotto uno stato di disillusione che ha allontanato non solo dalle urne ma dall’interesse per la politica.
Il “crollo dei sovranisti” più che un titolo rimane un auspicio. La destra arranca, e sembrava puntare fin dalle settimane precedenti al voto alla mitigazione del danno. La credibilità quasi nulla di candidati come Michetti e Bernardo, le inchieste sulle lobby nere, che hanno ritratto due partiti, Lega e Fdi, estremamente permeabili alle infiltrazioni parafasciste, la competizione interna tra i due partiti, hanno affossato una coalizione che ha prevalso soltanto sulle spaccature della sinistra in Calabria.
La destra, privata di forze liberali, ha perso terreno anche in seguito alla tentazione di abbracciare posizioni negazioniste, ponendosi come riferimento culturale, offrendo una sponda inquinata di demagogia e infestata dal germe anti-elitario. Strizzare l’occhio ai no-vax, e in alcuni casi contendersi l’elettorato cavalcandone le posizioni, a contribuito alla perdita di aderenza con il Paese reale, con lo slancio di una collettività che ha sposato un’idea dirompente di ripartenza, che non ha esitato a partecipare alla campagna vaccinale, che prova a migliorare il proprio approccio alla vita democratica in seguito ai mutamenti generati dal virus. Rispetto a questa idea di Paese e alla direzione intrapresa, gli strilli acefali dei no-vax sono così infinitamente marginali che interpretarli politicamente equivale a una perdita di credibilità. E di voti.
Nelle città assediate dal virus, le riaperture hanno svelato la necessità di riappropriazione di rigenerazione degli spazi urbani. L’urgenza di sentirsi comunità ha prodotto partecipazione dal basso e un distacco parziale dalle forme rappresentative a beneficio di esperienze di democrazia diretta sui temi, come dimostrano le milioni di firme per i referendum, e sui territori. Il virus, d’altronde, oltre a modificare le priorità, sta mutando le forme di partecipazione alla vita democratica.