Nell’epoca dello storytelling, in cui la politica si fonda esclusivamente sulla comunicazione, il potere delle misure simbolo, agitate come bandiere, generalmente popolari e foriere di consenso, è quello per cui al cospetto di una disoccupazione giovanile pari a oltre il 30%, di un paesaggio sociale sempre più gelido con centinaia e centinaia di vertenze sul tavolo del ministero, di 79mila insegnanti che rischiano di restare precari con il naufragio del decreto Scuola e il concorso ordinario rinviato a data da destinarsi, di una crisi ancora tangibile (con una nuova recessione all’orizzonte), un partito seduto al tavolo delle trattative per la formazione del nuovo governo pone come condizione imprescindibile una misura che allo scenario descritto non apporterebbe nessun beneficio e che è di per sé, al netto dell’aumento di popolazione dal dopoguerra a oggi, un colossale controsenso: il taglio dei parlamentari. E’ quello stesso potere per cui le manovre attorno ai nomi contano più dei programmi politici pregiudicando, dall’altro capo del tavolo, il legittimo tentativo di un Conte-bis, ad oggi la scelta più ragionevole e utile per il Paese. “I programmi e non le persone sono il terreno e lo strumento della discontinuità” (Enrico Berlinguer). Zingaretti dovrebbe conoscere la lezione.
L’immagine di questa anomala, e per certi versi surreale, crisi di governo è quella di un cerino che ogni partito si affretta a depositare nelle mani dell’altro, un tentativo di scaricare ogni responsabilità dinanzi al Paese che assiste per ora in silenzio. Distratto o attonito. Un copione in cui le forze politiche si preoccupano di salvaguardare il proprio storytelling e al contempo di evidenziare le incoerenze (o presunte tali) altrui. Sempre su un piano superficiale. Perché la politica italiana, tutta la politica, non ha ancora deciso cosa vuole fare da grande e non ha idea, nella perdurante assenza di una visione di futuro, da dove partire per risollevare le sorti del Paese. Si attiene alle sue più vecchie pratiche naufragando nell’interesse di partito (o di corrente, vedi Pd) e nel tornaconto personale. La crisi attuale è l’apice di questo processo. Una crisi di sistema in cui la politica, oltre a negarsi e a negare una visione, abdica al suo stesso compito quando non riesce più a emanare provvedimenti in grado di risolvere le istanze provenienti da un basso sconosciuto, cui ricorre soltanto per cavalcarne le tensioni sociali. O al massimo per interpretarle.
La politica della convenienza si accorda così al mero calcolo. Si tratta di un metodo vecchio quanto il mondo ma le cronache delle ultime settimane concorrono a fissarne i canoni nella globalità dello scenario politico italiano. Ai 5S conviene formare un nuovo governo anziché tentare la via delle urne in un momento di svuotamento del bacino elettolare: per giunta, ai parlamentari eletti quando ricapita un’occasione del genere? Un’occasione potenzialmente funzionale a una futura pensione da parlamentare ora che le indennità sono state tagliate. Quanti tra i giovani deputati e senatori pentastellati, ma in generale dell’attuale classe politica, hanno un lavoro a cui tornare? Presumibilmente pochi. Ai renziani conviene intrecciare le sorti del Pd a quelle del nemico storico perché in caso di elezioni il giglio magico non controllerebbe più i gruppi parlamentari, ad appannaggio renziano. Il Matteo fiorentino, protagonista di una sorta di commissariamento del partito, s’intesterebbe così il merito di aver barrato la strada alla destra populista salviniana (dopo averla fatta proliferare). A Zingaretti non conviene il prepotente ritorno in scena del suo predecessore e preferirebbe le urne per appropriarsi dei gruppi parlamentari, o al massimo un accordo con i 5S che non ridimensioni ulteriormente la sua figura di leader. “Se accettate Conte – hanno confidato alcuni pontieri grillini – assegniamo al Pd ministeri chiave e spostiamo il Movimento a sinistra aprendo una nuova era”. E allora, perché condizionare un governo di svolta con un no a Conte di fronte alla minaccia rappresentata da Salvini e dalla pretesa dei pieni poteri? È lo stesso Zingaretti a spiegarlo: “Accettare Conte sarebbe come dire che non guido più il Pd, che la mia leadership è svuotata”. Non proprio un atto di generosità nei confronti del Paese. E poi c’è il ministro balneare, finito all’angolo tra un mojito e un rosario. Se l’Italia è precipitata nel baratro di una crisi politica così profonda che rischia di generare conseguenze nefaste, la responsabilità è quasi esclusivamente da attribuire al mero e misero calcolo elettorale della Lega, che ha barato per mesi ai danni degli ignari alleati. La macchina del consenso, fondata sul Dio social e sulle distorsioni cognitive da sparare in ogni dimensione virtuale affinché intacchino quella reale. Il non governo a beneficio della propaganda e la propaganda a beneficio del consenso.
In risposta alla politica della convenienza, la mancanza di una cultura condivisa e di un orizzonte comune è il prodotto della più completa assuefazione. Anche l’elettore vota quasi esclusivamente per interesse personale. O al massimo per adesione illusoria. Per assurdo, in molti casi, inconsapevolmente, contro il proprio interesse. L’interesse collettivo non prevale più su quello individuale. Non siamo più cittadini, siamo consumatori. E i consumatori badano alla convenienza. La democrazia, privata del logos, delle idee politiche e delle lotte generazionali, non è mai stata così in pericolo. Una politica che non mira più a migliorare i livelli di convivenza ma che incarna un modello al ribasso, rischia di compromettere la fiducia residua nelle istituzioni democratiche e di favorire la svolta autoritaria e grottesca di chi chiede “pieni poteri”.