Il 15 Aprile Mico Argirò pubblica il suo ultimo album “Irriverentə – Canzoni dagli anni 20” per l’etichetta discografica ”Artist First”.
Colorato come il pop di Lambrooklyn, eclettico, capace di uscire fuori dagli schemi del rigido cantautorato: volendo intercettare ora il rap, l’indie, il pop appunto, unendolo con la musica d’autore. In questi brani si ritrova il racconto dei primi vent’anni di questo nuovo millennio; fino a toccare tematiche più attuali come il periodo pandemico e tutto ciò che esso abbia causato nelle nostre vite.“’Irriverentə” detiene due particolari record: primo album in Italia stampato su preservativi, primo album in Italia ad usare la schwa nel titolo.
Emerge la volontà di raccontare in modo libero e aperto i primi vent’anni di questo nuovo millennio: senza dover trovare una tematica centrale e unica in cui i brani debbano confluire nel tuo album “‘Irriverentə”. La scelta della schwa nel titolo dell’album racchiude in sé un’altra provocazione da lanciare?
Sull’irriverenza ci ho riflettuto tanto, perché viviamo un’epoca che chiama scandalo ciò che non lo è: per me vestirsi di piume e inneggiare a tematiche mainstream non può considerarsi scandalo, non può considerarsi ribellione. Achille Lauro o i Maneskin non sono scandalo, non sono irriverenza. Questa cosa che per me è chiarissima non lo è invece per il mondo. Ritengo inoltre, mutuandolo un po’ da Pasolini, che il dovere di un “artista” sia quello di scandalizzare, di mettere in posizione scomoda prima sé stessi e poi l’ascoltatore. A me la musica che ti accarezza nella tua zona di comfort mi fa vomitare, la musica che ti dice che “sei perfetto” e “va tutto bene” la trovo mostruosa, oltre che strumento di propaganda. Il non pensiero oggi è un atto politico e io non volevo adeguarmici. Questo disco voleva essere irriverente, voleva trattare determinati temi in maniera diversa, esponendo il marcio, irridendo le nostre piccolezze, scuotendoci un po’ dal nostro sonno divano-Netflix. La schwa rientra in questo discorso, ne è simbolo: un non suono, nato per includere, che invece separa e fa litigare tutti, che polarizza, che irrigidisce. Quando si parla di schwa si alzano i toni sia della femminista che del conservatore, è un simbolo molto simile a queste canzoni e ho scelto di metterlo nel titolo sia per questo motivo che per un motivo più essenzialmente provocatorio. A distanza di quasi due mesi dall’uscita non posso che riconfermare sia la scelta della schwa che delle canzoni proprio, dei temi trattati: molti si sono incazzati, molti indignati, tantissimi hanno capito o hanno, almeno, fatto una breve riflessione, in accordo o disaccordo, sui contenuti dei pezzi. “Irriverentə” non voleva essere un album ricreativo, voleva parlare di social, di lockdown, di sesso, di regole infrante e c’è riuscito. Non è un album da Radio Italia, per fortuna.
La scelta delle influenze nei tuoi brani raccoglie un’altra chiave Irriverentə: andare oltre la rigidità del cantautorato puro per toccare generi “minori e leggeri” come ad esempio il pop di “Lambrooklyn”. Quali altri stereotipi ritrovi che debbano essere debellati nel mondo musicale?
A me le definizioni stanno strette, anche quella di cantautore, mi sta stretto il genere (la schwa ne è anche prova) e mi stanno sul cazzo gli stereotipi nei quali devi rientrare per piacere, perché è più facile per il cervello della gente processare e catalogare chi sei, chi dovresti essere o rappresentare. Odio il concetto di cantautore, odio il rasta che si fa le canne, odio il pittore folle, odio il tatuaggio figo o il piercing al punto giusto, odio il rapper vestito urban o il jazzista con la camicia nera. Io sono io e voglio essere io: un essere umano riconosciuto in quanto tale, recepito, compreso e magari accettato nella mia complessità o almeno in alcune delle facce del mio caleidoscopio. È davvero difficile, nella civiltà dell’istantaneità e della superficialità, essere ossimorico, complesso, sfaccettato. Questo disco è così, nel bene e nel male (e magari ne paga anche le conseguenze), io sono così.
Del mondo musicale, oltre questo, cambierei tantissimo, soprattutto abbattendo le barriere: non esiste il genere, non esistono schemi, si può fare quello che si vuole e, oggi, nel momento in cui ognuno di noi può prodursi un bel disco in cameretta, ritengo scandaloso che i suoni siano tutti uguali, che gli arrangiamenti tendano tutti nella stessa direzione e che i temi siano peggio ancora uniformati. Mode, problema antico, dilemma storico per un artista: rientrare in una corrente e cavalcare l’onda o fare “parte per te stesso” con tutti gli annessi e connessi di difficoltà nell’essere trovato, capito e apprezzato? Però se non facciamo questo passo rimaniamo nel fango nel quale, da anni, sguazza l’arte contemporanea, dalla musica a tutte le altre arti.
Devo dire che, però, nel mondo dell’indipendente vero molti stanno facendo scelte personali, fuori schema, e ne sono felicissimo.
Partendo dai temi di più stretta attualità per arrivare al contesto musicale, riscontriamo la polarizzazione delle reazioni nell’opinione pubblica: si racchiude in un semplicistico scontro tra fazioni. Il tutto nel mondo dei social prende il dualismo tra haters e followers rendendo la discussione scevra di contenuti e confronto: questa deriva come può essere combattuta soprattutto per ciò che concerne l’ambito musicale?
Il fenomeno di così estrema polarizzazione, che sia Novax – Provax, Milan – Inter, Pro Putin – Pro Zelenski e via così, credo meriti un approfondimento attento, nei prossimi anni, da parte di sociologi e filosofi, perché è un fenomeno strano, anche se prevedibile e, forse, naturale. È tipo la globalizzazione, che doveva mischiare tutto e amalgamare le culture e invece ha come effetto anche quello di rafforzare gli estremi, le individualità indipendentiste. Tipo la danza sinestetica di Nietzsche o anche Maria Zambrano sul tema.
Quello che mi sconvolge è che nonostante il livello culturale si sia, almeno nominalmente, alzato tantissimo, nonostante le possibilità di apertura mentale attraverso viaggi, internet, contatto con culture diverse, lavori nuovi, ecc. l’uomo sia ancora “quello della pietra e della fionda”, pronto a uccidere il proprio vicino, cainamente il proprio fratello essere umano.
Non può tutto risolversi in un mi piace o non mi piace, in un amo o odio, in un parteggiare acritico, c’è bisogno di approfondimento, di comprensione delle sfumature, di meditazione sulle questioni più spicciole. Tutta questa polarizzazione è funzionale al sistema, al potere soprattutto, è un semplicissimo “dividi et impera” che ancora funziona benissimo e i commenti d’odio sui social ne sono una gigantesca prova: zero empatia, zero comprensione, zero vicinanza umana.
Mi stupisce tantissimo che siamo arrivati a questa polarizzazione dopo lunghi anni di relativismo totale, di teorica accettazione di tutto “perché siamo diversi”, “amiamoci così come siamo”, “tutto è possibile, dipende, tutto è relativo”… non so davvero come ci siamo arrivati, probabilmente perché tutto questo era una ipocrisia o probabilmente perché indotti da un potere che ha fatto leva sull’istinto bestiale.
Credo che grandissime colpe le abbiano gli “artisti”, musicisti in primis, ma poi anche letterati, registi e tutto il baraccone: coi loro silenzi, le loro sviolinate al potere, portabandiera di idealucoli mainstream, gente che per un like in più si venderebbe la madre. L’arte deve riscoprire il suo ruolo sociale, deve anche assumersi il rischio di non piacere, di essere odiata, ma per davvero, non in questa polarizzazione semplicistica. L’arte deve riscoprire il ruolo di rottura e riscoprire l’estremo, ma degli Ideali veri, quelli illuminano, fanno le rivoluzioni.
I primi vent’anni di questo nuovo millennio musicale permettono la possibilità di tracciare un bilancio: nella duplice veste di spettatore e di artista, quali sono state le novità più significative che tu abbia notato da semplice fruitore e che ti abbiano segnato nel tuo percorso musicale? Le tue aspettative nei confronti di questi decenni sono state confermate o disattese?
Nei ventidue anni del duemila il mondo è cambiato almeno cento volte e in maniera drastica, dai macrocambiamenti tipo 11 settembre o Covid fino ai cambiamenti più piccoli e di cui meno ti accorgi, ma noi non vivevamo così prima di oggi, non eravamo incollati ai telefoni, sempre connessi, non avevamo questo tipo di ironia, non ci mandavamo le foto del cazzo e della fessa e via così altri innumerevoli cambiamenti (che sono anche naturali e la cultura orientale lo sa da sempre, è l’occidente che invece tende ad ancorarsi). Tracciare un bilancio dall’interno di questi anni e di questi cambiamenti credo sia impossibile, il parere soffrirebbe troppo di recentismo, per questo ho scelto di non giudicare, ma di raccontare il presente e alcuni suoi aspetti che reputo peculiari (i social, l’ironia, il lockdown, l’amore e il sesso, la vita quotidiana…). È chiaro che poi nel racconto i pareri personali escano fuori, credo siano abbastanza palesi nel mio album, ma tutto si può capovolgere quando vivi a pieno il tuo presente, la tua epoca. Anche se credo sia fondamentale la coerenza, che ritengo proprio non manchi in queste canzoni.
Le mie aspettative sul presente sono state completamente disattese, ma è normale: io sono di base un ottimista e questo mi espone sempre alla caduta. Questo non frena il mio sognare, sognare un risveglio delle coscienze, riscoprirci semplicemente esseri umani e avvicinarci, stringerci, costruire insieme. Per me non è assurdo da pensare, anche se probabilmente impossibile. Con la mia musica sto cercando di fare questo: da una parte servizio sveglia, dall’altro ho un messaggio chiaro di unione e affratellamento, si vede chiaramente anche nello spettacolo live e negli esperimenti che ho fatto al Festival delle Emozioni a Terracina. Sento forte l’urgenza di dire a tutti “Svegliatevi, cazzo, vi tengono in coma. E una volta svegli uniamoci, facciamo gruppo, fottiamo davvero il sistema”.