Il finto degrado della musica italiana

Si sa, il passato è ricordato sempre con un po’ di nostalgia: ne smussiamo gli angoli più spigolosi che ci hanno fatto male, tendiamo a dimenticare le ferite (ormai cicatrizzate) che ci ha lasciato e ci rifugiamo nella sua idealizzazione; in questo modo, confrontato col presente, ci appare spesso come il luogo della felicità perduta. Questo vivere nel passato, questo tornare a quando si stava peggio ma si stava meglio, vale in tutti gli ambiti della vita, musica compresa.

Chi può dire di non aver sentito parlare del “degrado” della nostra musica d’autore? Probabilmente nessuno, dato che è sulla bocca di tutti coloro che guardano con nostalgia al passato dell’impegno politico dei cantautori, dello sfondo etico e civile delle loro canzoni. È ovvio che non potrà mai esistere un altro De Andrè o un altro De Gregori, ma è altrettanto ovvio che di quest’impossibilità è causa il superamento di quel momento storico-culturale. Gli anni delle contestazioni e dei grandi ideali politici sono finiti; non è più il momento delle grandi riflessioni e dei grandi obiettivi comuni; i musicisti stanno sperimentando forme d’espressione nuove (com’è sempre accaduto per ogni arte in ogni momento della storia).

Dagli anni ’80 in poi, nel nostro Paese ha preso lentamente forma un nuovo tipo di musica d’autore, che non ha rotto col passato, ma si è gradualmente allontanato da quelli che erano i grandi temi del quindicennio precedente: le guerre in Indocina erano ormai un ricordo, come lo era il periodo delle contestazioni, e la Guerra Fredda entrava stancamente nella sua fase finale. A questo punto, col dilagante disimpegno politico, anche coloro che avevano dimostrato più attaccamento alle vecchie tematiche cominciarono a rinfoderare le armi e a virare verso mete diverse, verso discorsi più personali, quotidiani, legati ai rapporti umani, all’interiorità, al viaggio, al riscatto sociale, al rapporto (questo soprattutto negli ultimi 20 o 30 anni) con alcool e droghe. Per citare alcuni casi esemplari, Antonello Venditti esce con Ci vorrebbe un amico, lontana anni luce dalla prima parte della produzione del cantautore romano, che nell’estate dell’84 ha un grande successo. De André torna nei vicoli della sua Genova, con sguardo sempre rivolto al viaggio per mare, al contempo metafora di vita e pezzo di storia della sua terra, pubblicando l’album Creuza de ma, interamente in dialetto ligure. Dalla, mente sensibilissima, anticipando i tempi, parla di cambiamento già nel ’79, con L’anno che verrà. Pino Daniele, fondendo canzone napoletana e blues, porta il pubblico in giro per la sua Napoli già dagli ultimissimi anni ’70. E si potrebbero fare tanti altri esempi.

È da qui che parte la grande trasformazione della nostra musica d’autore, che oggi continua ad avere esponenti interessanti, anche se diversi (come personaggi e come artisti) da quelli del periodo “d’oro”: dagli “artisti-ponte” degli anni ’90/’00 (Marco Masini, Samuele Bersani, Jovanotti, Cesare Cremonini o Luca Carboni, per citarne alcuni), che fanno da tramite tra la canzone del ‘900 e quella del nuovo secolo, ai più giovani, affacciatisi in tempi relativamente recenti sulla scena musicale (prevalentemente romana), portando con sé l’idea dell’associazione tra generi a volte molto diversi tra loro come base della propria arte. Sui vari Ariete, Franco126, Tommaso Paradiso, Gazzelle, Fulminacci (per fare alcuni nomi) è, però, evidente il magistero di quegli artisti le cui canzoni, senza mai perdere seguito e vigore, hanno attraversato gli ultimi decenni del secolo scorso. Nella formazione musicale del giovane Flavio Pardini (in arte Gazzelle), per sua stessa ammissione, hanno avuto un ruolo centrale Cesare Cremonini, Rino Gaetano e Lucio Battisti; in Fulminacci (Filippo Uttinacci) è evidente l’influenza dell’ultimo quindicennio della produzione di Jovanotti, mentre Franco126 (al secolo Federico Bertolucci) e Ariete (Arianna Del Ghiaccio) sono decisamente figli (o nipoti) di De Gregori e Dalla, con il primo che ha annoverato tra i suoi “anziani” preferiti anche il compianto Franco Califano; ancora, con Tommaso Paradiso, più avanti con l’età rispetto agli altri colleghi citati (classe ’83) e venuto tardi alla ribalta, ritroviamo la leggerezza di suoni del Venditti anni ’80, mista ad un importante background angloamericano.

Questi rapporti, però, non devono esser visti come modalità diverse d’imitazione, perché i nuovi della musica portano con sé il proprio trascorso ed il proprio tempo storico, componenti da non tralasciare quando si punta ad avere un quadro completo della produzione di un qualsiasi tipo di artista: infatti, adattando allo scopo un pensiero di Benedetto Croce “I poeti – così come i cantanti – non vengono da altri poeti, ma dalla madre terra, cioè dalla vita che li esprime, dopo avere riassorbito in sé tante cose ed anche i poeti precedenti”.

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