Il baratro dell’occupazione femminile nel Sud colpito dalla pandemia

La pandemia, formidabile acceleratore di ingiustizie sociali, ha aumentato anche le disparità di genere nel mondo del lavoro. La discriminazione è stata sempre una costante in questo Paese e le donne del Sud con la crisi Covid stanno pagando un ulteriore prezzo. Come attesta l’Istat, sono 42mila le donne che in Campania hanno perso il lavoro nel 2020. Una pioggia di licenziamenti, cassa integrazione e dimissioni. Perché molte madri sono state costrette a lasciare il lavoro dopo l’esplosione del contagio per restare a casa a badare a figli e famiglia. In Campania il calo dell’occupazione femminile colpisce due fasce d’età su tutte: 15-24 anni e 35-49, ovvero una fascia, la prima, caratterizzata da un lavoro tendenzialmente precario e l’altra, a seconda, in cui operano i servizi. Meno di una donna su tre che vive in Campania ha un lavoro. Un’occupazione in genere poco qualificata e con un salario inferiore a 300 euro rispetto a quello degli uomini: il dato emerge emerge da uno studio realizzato da Ires-Cgil. I 470 mila posti di lavoro persi nella media dei primi tre trimestri del 2020 (nonostante la ripresa del terzo trimestre) sono composti per due terzi da contratti a termine non rinnovati e/o non attivati e per la restante parte da lavoratori autonomi, concentrando le perdite di occupazione tra i giovani, le donne e nel Mezzogiorno.

I principali indicatori evidenziavano già prima della pandemia come la situazione di svantaggio dell’occupazione femminile nel nostro Paese fosse in larga parte legata ai valori delle regioni meridionali. Peculiare al riguardo la situazione del tasso di attività ma ancor di più del tasso di occupazione femminile: le regioni del Sud sono le ultime tra le regioni della Unione Europea per entrambi gli indicatori ma il divario diventa particolarmente elevato per il tasso di occupazione ad evidenziare una persistente carenza di domanda di lavoro nelle regioni meridionali anche in presenza di un’offerta di lavoro femminile crescente in particolare per le donne con più elevati livelli di istruzione. Su questa situazione già critica si è abbattuta nella prima parte dell’anno l’emergenza sanitaria che ha cancellato in un trimestre quasi l’80% dell’occupazione femminile creata tra il 2008 ed il 2019 riportando il tasso d’occupazione delle donne a poco più di un punto sopra i livelli del 2008. Come documentato dall’ultimo Rapporto Svimez, il dato a livello nazionale sottende un impatto ancora più drammatico nelle regioni meridionali: l’occupazione femminile persa nel II trimestre 2020 è quasi il doppio di quella creata negli undici anni precedenti (–171 mila unità a fronte di +89 mila tra il 2008 ed il 2019) con il tasso di occupazione rimasto poco al di sopra dei livelli del 2008 (31,7% nel secondo trimestre 2020 a fronte del 31,3%) solo per effetto del calo demografico.

Il lockdown ha esasperato un problema italiano e ha fatto comprendere come la scuola sia un elemento importante per la conciliazione lavoro-famiglia in un Paese già caratterizzato da bassi livelli di occupazione femminile e da sensibili disparità territoriali nel mercato del lavoro e nei servizi sociali. Come già riportato nel precedente Rapporto Svimez, quello relativo a 2019, la scarsa partecipazione femminile è connessa in buona parte all’incapacità delle politiche italiane di welfare e del lavoro di conciliare la vita lavorativa a quella familiare, causando anche incertezza economica e una modifica dei comportamenti sociali, tra cui la riduzione del tasso di fertilità delle donne italiane. Si è ribadito più volte come il basso tasso di occupazione femminile sia in buona parte ascrivibile allo scarso sviluppo dei servizi sociali. Le ore di lavoro non retribuite impegnate per la cura della famiglia e della casa risultano un indicatore importante per comprendere la scarsa partecipazione femminile al lavoro in Paesi come l’Italia dove i servizi educativi per l’infanzia e il part time non garantiscono un’ampia copertura. In queste condizioni non sorprende che in Italia, e soprattutto nel Mezzogiorno, il circolo virtuoso dell’occupazione femminile tardi ad innescarsi: il welfare è basato in modo sostanziale sulla famiglia come nucleo centrale nelle funzioni di cura, sia in modo diretto, sia in modo indiretto, con l’ausilio di lavoratori occupati nei servizi domestici e di cura dei bambini e delle persone fragili.

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