I Maneskin e i “vecchietti” che non mollano

Nelle scorse settimane molti hanno avuto modo di dire la loro sul Festival di Sanremo e, in particolare, sulla battaglia “rock sì – rock no” inerente lo stile della giovane band vincitrice della gara canora.

Senza entrare nel merito della critica musicale, anche se la voglia di farlo è tanta, vista la passione per la musica e per il genere rock in particolare, tutto questo vociare sul gruppo romano e sul suo meritarsi o meno di essere annoverato tra gli artisti rock fa venire in mente l’atavica lotta – molto, molto italiana  -tra giovani e “vecchi”, intendendo tra questi ultimi non gli ultraottantenni ma chi ha da poco varcato la soglia degli “anta”.

Sul tema ci sarebbero tanti argomenti certamente più rappresentativi, dalla politica al mondo del lavoro, dai luoghi della rappresentanza al vivere sociale, ma questo scontro generazionale, tra chi ha avuto la fortuna di assistere alla nascita del genere rock o chi ne difende i colori pur non avendone vissuto i tempi d’oro da una parte e chi quel mondo non lo ha toccato nemmeno di striscio dall’altra, risulta particolarmente intrigante.

Restando al passato sarebbe stato più semplice, rimanendo in campo musicale, rappresentare il tutto con ciò che avvenne negli anni ’50 e ‘60proprio con il rock ‘n’ roll. Oppure in tempi più recenti con l’avvento del reggaeton prima o della trap oggi, che non hanno, però, smosso così tante coscienze come ora.

La battaglia in questo caso è più sottile e fa un salto di qualità: sono bravi, sono giovani, sì certo suonano degli strumenti e, infine, non usano l’autotune. Tutto bene ma non sono dei nostri. Vuoi mettere, non hanno mica scritto “Stairway to Heaven”, sono borghesi, provengono dalla Roma bene e poi hanno il peccato originale di aver partecipato ad un talent. Volendo fare un parallelo recente, non italiano, la stessa cosa è accaduta ad un altro giovane gruppo, in questo caso statunitense, i Greta Van Fleet.

Qualcuno si chiederà perché mai tutto questo faccia pensare all’atavica guerra generazionale che condanna il nostro Paese da anni.

La risposta è nella stessa domanda: perché abbiamo imparato così bene a difendere la posizione che anche quando in realtà non avremmo nulla da difendere, ci battiamo per restare nella nostra trincea. E anziché batterci il petto in segno di penitenza per aver dilapidato un capitale fatto di lotte e conquiste, barattato valori e idee con lustrini e pagliette, ci permettiamo di condannare i nostri ragazzi dicendo loro che tanto meglio di quel che c’è loro non faranno e non saranno mai.

In realtà noi non ancora vecchietti, facciamo anche peggio dei nostri genitori, perché almeno loro un conto da pagare ce l’hanno avuto e lo hanno fatto con gli interessi. La nostra generazione, o quella immediatamente precedente, che ha lottato per un mondo migliore, per la libertà, per le conquiste sociali ha costruito, paradossalmente, il mondo in cui oggi viviamo, fatto di ideali falliti e miserevolmente dimenticati, conquiste sociali abbandonate a se stesse oppure trasformatesi in privilegi prima e capestri poi per le generazioni successive: basti pensare al mondo del lavoro, nel quale intere generazioni hanno goduto e godono di giusti diritti conquistati sul campo negli anni, mentre le generazioni dai ‘90 in poi sguazzano nella precarietà e nell’assenza di prospettiva più assoluta.

Il sottile fil rouge che guida il nostro Paese, sempre più anziano e sempre meno capace di guardare avanti e di mettere in gioco i propri ragazzi, salvo poi lamentarsi puntualmente vedendone scintillare il nome all’estero, nei più disparati campi, nei quali quasi sempre riescono a costruire la loro vita e in qualche circostanza anche a brillare nel firmamento dell’eccellenza. Forse aiuterebbe molto non storcere il naso ed ascoltare i nostri ragazzi un po’ di più. Immaginare un futuro diverso, per e con loro, cominciare a costruirlo. Delegare, dare spazio, premiare, invogliare ma soprattutto considerarli non semplici contorni ma piatto principale. Anche perché, con tutta la nostra buona volontà di restare nella trincea di cui sopra, il mondo è il loro così come lo sarà delle generazioni a seguire. Perciò insegniamo loro a non mantenere la posizione – che tra l’altro ancora non hanno – ma a vivere ed esprimersi e così faranno a loro volta nei confronti di quelli che saranno i loro figli. Tutto il rispetto per chi ha combattuto prima, per chi ha conquistato e lasciato sul campo un pezzo di sé, ma è assolutamente necessario riconoscere il giusto spazio a chi ha tanto da costruire per poi essere raccontato.

I Led Zeppelin e i Pink Floyd hanno fatto la storia, i Guns ‘n’Roses e i Nirvana hanno contribuito a raccontarla ai più giovani e a proseguirla, ma ora è giunto il momento di vedere i nostri giovanissimi Måneskin cosa saranno in grado di fare.

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