Navigando le scene musicali, anche le meno vivaci, capita di imbattersi nell’improvvisa apparizione di esperienze che restituiscono la curiosità svanita nell’oblio da cover. Gli Hartmann, formazione nata nel 2016 dall’intuizione dei musicisti salernitani Carlo Roselli e Daniele Apicella, riflettono perfettamente questa premessa. Il loro primo concerto-spettacolo, “Musiche e diari di viaggio dall’Età di Mezzo”, non tradisce lo stretto legame con la musica medievale, i cui confini, però, nel corso del tempo non hanno retto all’urgenza dei protagonisti di estendere il proprio spazio creativo a diversi altri influssi provenienti, ad esempio, dalle tradizioni musicali extraeuropee. Il gruppo ha una sua consistenza fin dalle biografie. Carlo Roselli (strumenti a corde) è una figura rappresentativa perché il suo bagaglio artistico coniuga musica e teatro, perfettamente in linea con la natura del progetto. Daniele Apicella (tamburi a cornice) è un musicista puro e talentuoso, un professionista, uno dei portanti del progetto. Poi Renata Frana (dilruba), artista poliedrica, dedita alla musica così come alle arti visive. E infine l’apporto decisivo delle voci: Orsola Leone, contributo della prima ora, da poco trasferitasi in Austria, e Alberto Ferraro, attore, commediografo, abile mascheraio. Profili che confluiscono in un unico flusso creativo e sperimentale, in un modo di concepire l’ensemble come un laboratorio aperto. E la resa non tarda a promuovere l’intento. La loro musica, fin dal principio, in un misto d’interdizione e turbamento, blandisce l’ascoltatore, invita all’abbandono in un’escalation di premesse. L’atmosfera muta, raccoglie sonorità fresche d’espansione in un motivo innanzitutto arcaico: quei suoni, prodotto di un insieme di affascinanti e insoliti strumenti, trasudano il vincolo con la terra d’origine, sono appartenute ai nostri avi in epoche in grado di sedurre ancora oggi il nostro intimo. Alcuni brani sono un richiamo concentrico, una lirica disperante in cui i suoni e la voce si contendono il proscenio assegnandosi un’appassionata alternanza e snodandosi, nell’imprimere la propria forza agli echi, lungo un sentiero costellato di sospensioni e d’improvvise progressioni strumentali, che si avvicendano a cullanti arpeggi in cui affiora tutta la tecnica dei musicisti. La dilruba, strumento ad arco originario dell’India, magistralmente suonato, inaugura una vibrante gestazione di musiche pregna di solennità, preceduta spesso da un avvio di tamburo, la vera premonizione ritmata, l’annuncio della svolta melodica. È una musica spesso muta, in cui la voce, viva di tormento, evoca il messaggio. Nonostante la facilità con cui si risale alla matrice del percorso, è tuttavia riduttivo circoscrivere il loro stile ai canoni della musica medievale. Gli Hartmann padroneggiano un genere incapace di purezza, meravigliosamente fecondato da innumerevoli influenze: attinge dalla classica al jazz, dal punk alla tradizione campana. E poi dall’hindustani, dall’afghana. Il progetto stesso è frutto di una contaminazione artistica. Vi convergono le arti visive, la narrativa, il teatro. I testi non sono mai secondari alla musica, mutuano dalle filastrocche della tradizione locale e dagli spettacoli teatrali. La poetica è dunque sempre funzionale all’organicità. Ne deriva un approccio contemporaneo che scongiura il rischio della mera rievocazione. Ascoltandoli, si accoglie un mistero che trapassa le epoche, che spalanca su un crocevia di culture musicali. Il loro ultimo lavoro in cantiere, ‘Trotula’, s’ispira alla tradizione della Scuola Medica Salernitana, all’illuminata cultura fonte di conoscenza. Racchiude brani inediti caratterizzati dai testi di Antonio Petti, in cui emerge maestosamente, in un sogno che porta il suo nome, la figura della medichessa salernitana. “Non sono stata una guaritrice né una strega ma medico, medico di tutti. Le idee vivono, per questo il mio nome dura ancora”. Si tratta del loro primo album, il risultato dell’universo composito della loro creatività, di tre anni di attività, di esperienze maturate nell’intreccio di linguaggi. Hanno così deciso di incidere un vinile (sissignore, non è mai tramontato!), reperibile sulla piattaforma Musicraiser, dove hanno lanciato una campagna di crowdfunding che ha già mobilitato parecchi estimatori. Al vinile, prodotto in un numero limitato di copie pari a trecento (con la copertina xilografata a mano), si accompagnerà il download dell’album in anteprima. Beninteso, nessuno si azzardi a definire ostica una musica che può richiedere un tempo e un’educazione diversa dall’ordinario. Gli Hartmann vantano una capacità di attrarre, di introdurre il pubblico in un labirinto magico di suoni e parole, di assicurare vette di suggestione. Dalle atmosfere all’intensità della fusione di musica e teatro. L’ampio respiro di un genere senza genere. Dell’antico destinato a confondersi nella traccia di una nascente avanguardia.
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