Urlavano “massacriamoli”, quelli dei reparti speciali, una schiera di unità inviate a Genova per colpire. Caricavano a freddo un corteo autorizzato approfittando delle strettoie per intrappolare i manifestanti: un’imboscata le cui premesse erano contenute nelle cariche di via Tolemaide, il lungo rettilineo che costeggia la linea ferroviaria. Utilizzavano oggetti contundenti fuori ordinanza, tra cui mazze di ferro e lanciagranate ad altezza uomo. Schizzavano con i blindati tra la folla, caroselli ad alta velocità come schegge impazzite. Spegnevano sigarette sugli zigomi di un corpo esanime, quello di Carlo Giuliani ragazzo, ucciso da un colpo di pistola sparato da un carabiniere. Dopo la sua morte intonavano il coro “Uno di meno”. S’introducevano nella scuola Diaz, concessa dal Comune di Genova al Social Forum, piazzavano di soppiatto molotov nelle borse, fabbricavano prove false come pretesto per avviare un pestaggio di massa, poi avvenuto nel corso di lunghe ore di torture ai danni di uomini e donne, giovani e anziani provenienti da ogni parte del mondo. Alla Diaz così come alla caserma di Bolzaneto: denti spezzati, braccia, gambe, e arti fratturati, occhi inondati di spray al peperoncino, emorragie cerebrali e toraciche, minacce di stupro e stupri veri e propri, sigarette spente sulla pelle. Alcune persone ridotte in stato comatoso.
No, non è un film sulle atrocità commesse durante le dittature militari in Sud America. E’ avvenuto in Italia. A Genova, nel luglio del 2001.
La morte di un ragazzo priva di colpevoli, le condanne per la violenta repressione preventiva e gratuita di piazza, per la macelleria messicana della Diaz, per le torture della caserma di Bolzaneto, non riflettono la gravità dei crimini accertati e coinvolgono un numero esiguo di coloro che hanno partecipato alle violenze. Secondo Amnesty International si è trattato della più grave sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale.
La verità processuale è monca, molti tra i torturatori in divisa sono stati salvati dalla prescrizione. Nel corso dei processi si sono susseguite testimonianze reticenti, un’omertà issata a vessillo culturale, il tentativo ostinato, e in un buona parte riuscito, di depistare: i responsabili delle inaudite violenze di Genova, trincerati dietro un cameratismo eversivo, hanno offerto alla giustizia di un Paese già a corto di verità, in cui il segreto di Stato ha ripetutamente funto da scudo per i corpi deviati e le strategie del terrore, il più tradizionale meccanismo di insabbiamento della verità.
In un estratto delle motivazioni della sentenza di primo grado sui fatti della caserma di Bolzaneto ricaviamo che: “L’elenco delle condotte criminose poste in essere in danno delle persone arrestate o fermate transitate nella caserma di Bolzaneto nei giorni compresi tra il 20 e il 22 luglio 2001 consente di concludere, senza alcun dubbio, come ci si trovi dinanzi a comportamenti che rivestono, a pieno titolo, i caratteri del trattamento inumano e degradante e che hanno tradito il giuramento di fedeltà alle leggi della Repubblica Italiana e, segnatamente, a quella che ne costituisce la Grundnorme, la Carta Costituzionale. Purtroppo, il limite del presente processo è rappresentato dal fatto che, quantunque ciò sia avvenuto non per incompletezza nell’indagine, che è stata, invece, lunga, laboriosa e attenta da parte dell’ufficio del P.M., ma per difficoltà oggettive (non ultima delle quali, come ha evidenziato la Pubblica Accusa, la scarsa collaborazione delle Forze di Polizia, originata, forse, da un malinteso “spirito di corpo”) la maggior parte di coloro che si sono resi direttamente responsabili delle vessazioni risultate provate in dibattimento è rimasta ignoto”.
Commettere un reato o una violenza, se indossi una divisa, dovrebbe rappresentare un’aggravante: in Italia, al contrario, è quasi un salvacondotto. Nel nostro Paese molti tra i mandanti e gli esecutori delle violenze di Genova hanno fatto carriera, addirittura ricoprendo ruoli influenti all’interno della macchina dello Stato e non. E’ il caso di Gianni De Gennaro, capo della Polizia all’epoca dei fatti. Non chiederà mai nemmeno scusa per quelle atrocità, nonostante la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo abbia condannato l’Italia per il comportamento tenuto dalle forze dell’ordine durante l’irruzione alla scuola Diaz nei giorni del G8 di Genova del luglio 2001. Le azioni della polizia nella notte tra il 21 e il 22 luglio del 2001 hanno avuto “finalità punitive” e sono state una vera e propria “rappresaglia, per provocare l’umiliazione e la sofferenza fisica e morale delle vittime”. Pertanto, secondo la Corte, possono essere descritte come “tortura”. Sorvolando poi sulle responsabilità politiche, su cui non è mai stata fatta luce. Sull’operato e sugli ordini di Fini e Scajola, ad esempio, all’epoca rispettivamente vicepresidente del Consiglio e ministro degli Interni. Sui fatti di Genova non verrà mai istituita nemmeno una Commissione parlamentare d’inchiesta.
Sulle drammatiche vicende di quei giorni pesa indubbiamente il ruolo della stampa, intruppata nella versione ufficiale, incapace di documentare a fondo, addirittura connivente. Si è assistito ad un’autentica opera di distoglimento dai temi e dalle ragioni del Social Forum indicando un capro espiatorio perfetto: la sovversione di piazza. Innescata dalla repressione, dalle infiltrazioni. Black block piovuti dal nulla e al nulla tornati. Atti vandalici lasciati liberi di compiersi. Come quando le tute nere devastavano l’area intorno a Marassi ma dall’alto giunse l’ordine, come dimostrano le comunicazioni radio della Polizia, di convergere su via Tolemaide per caricare una manifestazione pacifica.
Conveniva strumentalizzare, conveniva generalizzare, conveniva ammettere e fomentare le frange violente per poi oscurare il resto e trovare il pretesto per menare alla cieca. A Genova non vi è stata soltanto la vergogna di uomini in divisa dalla mancata coscienza, ma una precisa strategia: il compattamento, sul piano mediatico, dei perbenismi e delle ipocrisie del Paese, lo stesso in cui negli anni a venire ultrà violenti, estremisti di destra, forconi e movimenti di natura turbo-populista o anti-democratica saranno lasciati liberi di devastare le città e di bloccare le arterie stradali e autostradali, danneggiando finanche il patrimonio culturale, mentre gli studenti, i disoccupati, gli sfruttati, i migranti, i terremotati, i movimenti per la casa, per l’acqua pubblica e tutti coloro che avanzano istanze, che propongono un modello diverso di società, o che semplicemente manifestano il proprio dissenso figlio del disagio sociale, finiranno preda di una repressione violenta.
Genova non ha segnato soltanto i destini politici di una generazione. Genova ha compromesso definitivamente i rapporti tra quella stessa generazione e le forze dell’ordine, oltre a danneggiare significativamente la fiducia nelle istituzioni. La situazione ambientale ha inferto un vulnus gravissimo, oltre a coloro che ne sono stati vittime, anche alla dignità delle Forze della Polizia di Stato e della Polizia Penitenziaria e “alla fiducia della quale detti Corpi devono godere, in virtù della meritoria attività quotidiana svolta dalla stragrande maggioranza dei loro appartenenti, nella comunità dei cittadini”, come riportato nella sentenza per i fatti di Bolzaneto.
Il mancato riconoscimento da parte dello Stato non ha posto le condizioni per scongiurare nuovi e vili episodi di violenza prodotti dalla bestialità e dall’abuso di potere. Dopo venti anni, le immagini registrate dalle camere del carcere di Santa Maria Capua Vetere testimoniano quanto diffuso sia il ricorso al pestaggio e alle violenze gratuite in alcuni ambienti. La società civile e parte dell’opinione pubblica chiedono ancora l’introduzione del codice identificativo sulle divise necessario per riconoscere i responsabili di comportamenti scorretti o violenti. Per quanto tempo ancora rimarranno inascoltati?