Negli ultimi anni, al cospetto dell’aumento delle diseguaglianze, della crescita dei nuovi poveri e dell’esclusione sociale, dei danni irreversibili al pianeta perpetrati dal profitto, della precarizzazione del lavoro e dello stato di sfruttamento di migliaia di lavoratori da parte di quelle multinazionali che hanno monopolizzato il mercato, ho sempre ricordato Genova. Quel magnifico movimento eterogeneo, quei ragazzi profeti che si battevano contro la globalizzazione e lo sfruttamento selvaggio delle risorse da parte di un’economia senza vincoli che minacciava il pianeta. Quella meglio gioventù irrisa, sconfessata, torturata, accompagnata al patibolo mediatico, mentre fuori dal palazzo uomini in divisa puntavano l’arma contro tutti uccidendone uno.
Genova è stata l’ultimo grido contro la società dei consumi globalizzata e tutto ciò che ne discende. E’ stata l’ultima comparsa di una massa critica che si ritrovava nelle piazze con l’intento di cambiare lo stato delle cose. Genova è stata anche l’ultima stagione dell’impegno giovanile e del protagonismo del sindacato operaio.
Le ragioni dei no-global non hanno attecchito non perché, come sostiene qualcuno, volevano rovesciare il capitalismo per salvare l’ambiente mentre oggi sono proprio le multinazionali a teorizzare la sostenibilità. I no-global sono rimasti inascoltati perché in questi anni si è consumato un passaggio chiave: siamo passati da una dimensione di cittadini all’essere consumatori. Si è compiuta quell’opera che Pasolini aveva previsto già negli anni settanta, la vittoria dilagante del consumismo sfrenato, capace di condizionare le esistenze al punto da relegarle ad un unico sovrano scopo: l’incremento del potere d’acquisto, senza il quale non esiste felicità. Le ragioni di quel movimento oggi verrebbero derise dai più: la globalizzazione ha già distrutto le realtà particolari, le multinazionali hanno già sfruttato lavoratori e agevolazioni statali per poi delocalizzare, l’impoverimento ha già posto le premesse per le pulsioni autoritarie, il cambiamento climatico sembra inarrestabile. Quelle idee sono sorpassate perché erano lungimiranti, perché avevano previsto tutto. Perché ora il delitto si è già consumato.
Nelle affollate assemblee del Genova Social Forum denunciavano il modello di sviluppo, annunciandone le derive: una crisi economica e sociale senza precedenti, l’avanzamento dei cambiamenti climatici, lo sfruttamento selvaggio delle risorse, soprattutto nel terzo mondo, e le conseguenti ondate migratorie, la distruzione dei diritti del lavoro, la genuflessione del sistema politico alle multinazionali e alle case farmaceutiche. Fenomeni che si sono puntualmente verificati.
Dopo venti anni, dopo un’opera costante di criminalizzazione dei movimenti, gli impulsi della società civile sono esclusi dall’agenda politica e soffrono una frammentazione crescente. La sinistra ha abdicato al proprio ruolo, scindendo la catena dei diritti: quelli civili si, quelli sociali forse, boh, chissà, che significa no. E le forze progressiste sono diventate l’interlocutore privilegiato dei colossi economico-finanziari. Quel grido “Un altro mondo è possibile” è stato continuamente compresso dalla politica, tenuto ai margini dalla classe dirigente di un centro-sinistra che ha scaricato quelle esperienze, amplificando la separazione tra società e politica, alimentando la crisi di rappresentanza, regalando parte di quell’eredità all’anti-politica che si riconosce nel rifiuto della delega.
Molti temi del movimento no-global, dall’ecologia ai beni comuni e fino al reddito minimo garantito sono stati ripresi e inquinati dai populismi sorti negli ultimi dodici anni, dopo la crisi finanziaria del 2008. Più in generale, sono mancati gli spazi politici e sociali in grado di tradurre i temi di Genova in una proposta precisa.
La ferita mai rimarginata di Genova non sarà l’unico sconvolgimento di un’estate in cui il mondo cambiò. Poco meno di due mesi più tardi, laggiù a Ground Zero, un nuovo spartiacque della storia consegnerà ad altri manipolatori della democrazia un ruolo da protagonisti nel decennio che inaugura il secolo. Il movimento confluì poi naturalmente nel pacifismo mondiale contro le guerre preventive di Bush e la santa alleanza tra terrore e profitto.