Il fallimento dei Referendum e quello di Salvini

400 milioni di euro spesi e un esito disastroso: si tratta della tornata referendaria meno partecipata della storia Repubblicana. I cinque quesiti sulla giustizia si arenano al cospetto di una scarsissima partecipazione, avendo votato un italiano su 5, poco meno del 21% degli aventi diritto. L’astensione, figlia anche della bocciatura da parte della Consulta di quesiti ampiamente più rilevanti per il Paese reale, Eutanasia Legale e Cannabis Legale, ha assunto dimensioni tali da rendere irraggiungibile il quorum. Gli under 40, innanzitutto e in maniera massiccia, hanno disertato le urne.

La materia dei quesiti referendari sulla giustizia non è di competenza dei cittadini, semmai degli addetti ai lavori. A maggior ragione mentre è in corso un iter parlamentare per la modifica delle norme oggetto dei quesiti referendari. E su quei temi occorre una riforma organica, non un Referendum che avrebbe abrogato soltanto delle norme senza offrire alternative. In ogni caso, oltre a coloro che non avrebbero comunque preso parte alla consultazione, per la maggioranza dei cittadini interessati l’astensione si è rivelata funzionale allo scopo: il mancato raggiungimento del quorum e al contempo la possibilità di sedare le lagne garantiste, stucchevoli in un Paese dove farla franca non è mai stato davvero difficile.

Entrando nel merito dei risultati, sull’abolizione della legge Severino il no raggiunge quota 45,9 per cento. Sui nuovi limiti alla carcerazione preventiva il 43,7 per cento. Larga, invece, la maggioranza dei sì sugli altri quesiti: 75% di sì alla separazione delle funzioni dei magistrati, 73% sul diritto di voto agli avvocati nella valutazione dei magistrati e 73% anche per l’abolizione delle firme per le candidature al Csm.

Il fallimento dell’intera operazione referendaria segna un punto di non ritorno per il segretario della Lega Matteo Salvini, tra i principali promotori. Il peggior risultato nella storia delle consultazioni referendarie porta la sua firma. Sua e delle contraddizioni in seno alla Lega in materia giudiziaria. L’analisi dei flussi elettorali non lascia scampo al leader del carroccio: meno del 20% degli elettori leghisti si è espresso in merito ai cinque quesiti cavalcati dal segretario. Numeri che si sommano all’imbarazzo del Governo (di cui fa parte) e dello stesso carroccio sulla questione grottesca dei viaggi a Mosca.

Ma è il risultato ottenuto dalla Lega alle amministrative a rendere il quadro davvero fosco e a segnare un cambio di guida al timone sovranista dopo il sorpasso, ormai consolidato nei numeri, di Fratelli d’Italia. La Lega è arrivata dietro al partito della Meloni praticamente ovunque, addirittura nella nera Verona. Una sofferenza diffusa che non ha risparmiato il Nord, dove i candidati sindaci espressi dalla Lega hanno ceduto il passo ai competitor (Lodi e Padova su tutti) o sono approdati al ballottaggio in una situazione di partenza sfavorevole, con rimonte che si preannunciano difficili, come nei casi di Verona, Parma e Como. Ma al Sud si registra il vero disastro, con la Lega spazzata via e sostituita da figure della prima ora del centrodestra berlusconiano, i Marcello Dell’Utri e i Totò Cuffaro, e da altri “referenti” condannati per reati associativi. Insieme al ritorno di quelli del “61 a 0” tramonta il progetto della Lega nazionale. E anche se le vittorie al primo turno di Genova, Palermo e L’Aquila riescono a compensare in parte lo scontento dalle parti di Via Bellerio, non passerà inosservato a coloro che all’interno della Lega chiedono a gran voce l’inizio di una fase congressuale che in tutti e tre i contesti la Lega non ha espresso nessun candidato sindaco e non ha neanche recitato un ruolo da protagonista. All’ombra della vecchia cricca palermitana e di Giorgia Meloni, la leader in ascesa, senza la quale attualmente il centrodestra non esisterebbe.

Riproduzione riservata ©