Fahrenheit America

Il fumo e la polvere di morte che si propagano nel cielo di New York l’11 settembre dell’anno di nostra vita 2001, addensano in una nube tossica la storia degli ultimi venti anni. Le ceneri e i resti di quasi tremila vittime innocenti, di cui solo 1 600 identificabili, si raccolgono nel surreale ricordo di quanto avvenuto a Manhattan una mattina in cui l’autunno iniziava ad affiorare mutando i colori della metropoli. Un sacrificio umano immane, su un suolo mai violato prima se non nel teatro di Pearl Harbour. Il bilancio drammatico di quel giorno a New York ha trascinato con sé altre conte impietose, derivanti dai successivi conflitti scatenati dal USA: 241mila (241mila!) vittime incolpevoli, di cui 2442 soldati statunitensi. Dallo spartiacque della storia dell’11 settembre, il mondo è piombato nell’incubo della vulnerabilità e dell’allerta permanente. Dal pantano del medio-oriente al terrorismo che infilza il cuore dell’Europa, la democrazia liberale ha smarrito la ragione stessa delle sue libertà, barattandole con una richiesta di sicurezza. Nell’illusione di esportare il modello di vita occidentale con le baionette, l’Occidente ha perso nuovamente la sua innocenza.

Da Ground Zero parte una storia circolare che, a venti anni di distanza, sancisce il ritorno dei talebani nell’Afghanistan che ospitava Osama Bin Laden e da cui tutto ebbe inizio. Con le torri si è sbriciolata la democrazia: attaccata dai fondamentalisti, manipolata dai futuri criminali di guerra, un potere corrotto e dedito al profitto, incapace di prevenire gli attacchi e che sugli attacchi dell’11/9 ha fondato nuove strategie di dominio, rispondendo alla follia jihadista con lo spargimento di morte e distruzione, mettendo a repentaglio la sicurezza nel mondo, ricorrendo alla paura per offrire protezione e rinnovarsi.

L’America, nei mesi precedenti all’attacco, è un Paese che assiste al passaggio di consegne, tutt’altro che agevole, tra Clinton e Bush. Il nuovo inquilino della Casa Bianca, si scoprirà, chissà quanto consapevolmente procede con il taglio dei fondi anti-terrorismo dell’FBI. Soprattutto trascura l’informativa consegnatagli il 6 agosto del 2001 nella quale si riportava che Osama Bin Laden progettava di attaccare l’America dirottando voli di linea. Le rivalità all’interno dell’intelligence, prima dell’istituzione della Task Force congiunta Cia-FBI, genera una clamorosa falla nel sistema informativo: Al Qaeda e i suoi dirottatori, nomi noti ai servizi americani, compiono l’attentato più spettacolare e devastante della storia. Alcuni dossier provano le connessioni tra l’alto rango saudita negli Stati Uniti e i dirottatori. Nonostante la sospensione del traffico aereo, viene consentito ad alcune famiglie saudite di imbarcarsi su un aereo per rientrare a casa. Nelle dinamiche di quelle ore pesano gli stretti rapporti di affari tra i Bush e i sauditi. L’FBI non riuscirà mai ad interrogare i membri di quelle famiglie, mentre a Manhattan i familiari delle vittime del Wtc continuano a chiedere la de-secretazione dei rapporti. Per i tre presidenti che hanno preceduto Biden, lo svelamento di quei documenti rappresentava un pericolo per la sicurezza nazionale. Un indizio che ne accresce la rilevanza. A pochi giorni dal ventesimo anniversario degli attentati dell’11 settembre negli Stati Uniti, il presidente Joe Biden ha firmato un ordine esecutivo per declassificare i documenti relativi agli attacchi.

Dopo Ground Zero, la risposta all’orrore è un passaggio obbligato agli occhi dell’opinione pubblica americana e mondiale. L’amministrazione Bush ordina l’invasione dell’Afghanistan, Paese che offre ospitalità al ricercato numero uno al mondo, Osama Bin Laden. Un intervento militare che non gode dell’adeguato dispiegamento di forze: soltanto 11mila unità, un numero esiguo considerando la conformazione geografica del Paese. Una guerra intrapresa per necessità di risposta, non prioritaria nei piani di Bush. D’altronde la caccia a Bin Laden non rientra tra le urgenze dell’amministrazione in carica, la mente della devastazione di Ground Zero verrà ucciso solo nel 2011 durante il governo di Obama. La Casa Bianca ignora il contesto afghano, le sue istanze sociali, politiche e culturali. Un’occupazione, una distribuzione di cariche, il Paese suddiviso in zone militari controllate dai vari contingenti. Negli anni a seguire, contrariamente agli slogan nostrani branditi da governanti italiani (“E’ una missione di pace”), l’Afghanistan vive una fase acuta di instabilità: l’invasione e la permanenza delle truppe sul suolo afghano evitano rovesciamenti nel controllo militare ma si dimostrano privi di una funzione costituente per le nasciture strutture politico-istituzionali locali. L’Afghanistan non ha ricevuto quegli strumenti necessari per avviare il lungo e faticoso percorso verso un sistema democratico. Lo dimostra il modo e la rapidità con cui si è liquefatta l’organizzazione politica, istituzionale e militare di tutte le aree del Paese, un’agevolazione per i rientranti talebani, adesso al potere. Adesso che l’America ha annunciato e compiuto il ritiro: “La nostra presenza in Afghanistan dovrebbe essere focalizzata sul motivo per cui siamo andati lì: garantire che il Paese non fosse usato come base da cui attaccare di nuovo la nostra patria. L’abbiamo fatto. Abbiamo raggiunto questo obiettivo”. L’ultima illusione americana è contenuta nel discorso in cui Biden annuncia il ritiro delle truppe.

L’11 settembre offre un pretesto all’amministrazione Bush per giustificare l’uso della forza anche in contesti estranei all’attentato al World Trade Center. La dichiarazione di guerra del presidente texano, legato da sempre al mondo petrolifero, a uno dei maggiori produttori di oro nero, l’Iraq, contiene una delle più colossali menzogne della storia. Secondo l’allora presidente degli Stati Uniti, le ragioni dell’invasione erano di disarmare l’Iraq dalle armi di distruzione di massa, che non furono mai trovate, né fu provata la loro esistenza e di porre fine al presunto sostegno di Saddam Hussein al terrorismo e raggiungere la “libertà” per il popolo iracheno. La risoluzione Onu esclude l’autorizzazione all’uso della forza, la guerra non riceve il mandato del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che porta gli esperti di diritto a condannare la guerra come un’invasione illegale. Nel mondo dilagano le proteste contro la guerra, oltre tre milioni di persone manifestano a Roma il 15 febbraio del 2003: un fiume arcobaleno dalle molteplici anime. Geroge W. Bush, due anni più tardi, in occasione delle esequie di Papa Wojtyla, verrà inondato di fischi dai presenti in piazza San Pietro.

Le guerre successive all’11 settembre nascono dall’illusione di esportare un modello di società ma sono innanzitutto frutto degli interessi economici. Non di creare i presupposti per neutralizzare la jihad, come sentenzieranno le vicende. E’ l’illusione dell’onnipotenza americana la causa scatenante dei conflitti che hanno prodotto la destabilizzazione di intere aree, ritorcendosi contro l’occidente.

Nel risiko dell’Iraq gli americani hanno stretto e sciolto le alleanze più disparate secondo il momento, con l’obiettivo di scongiurare insurrezioni. Tutto inizia nel 2006 con gli americani in affanno al cospetto di Al-Qaeda. In un Paese schiacciato dal potere sciita, gli USA decidono di appoggiare le milizie sunnite insorte contro Al-Qaeda. Tre anni di pace e Obama opta per il ritiro delle truppe. Un Paese “stabile, sovrano, autosufficiente”, lo definisce lo stesso presidente americano. Nel giro di qualche mese cadono una dopo l’altra le città irachene conquistate dall’Isis. Il califfato espugna Mosul, approfitta del colabrodo siriano, come in Afghanistan l’inadeguatezza dell’esercito iracheno si lega alla debolezza istituzionale. Per di più, le milizie sunnite, precedentemente utilizzate dagli Stati Uniti, combattono al fianco dell’Isis. Nei teatri destabilizzati dalle stesse guerre, l’approccio puramente strategico degli americani ha colpevolmente escluso dal novero delle possibilità la capacità di rigenerazione dei gruppi jihadisti: ne sconfiggi uno e ne appare un altro, lì dove il vuoto prodotto dall’invasione militare ha generato terreno fertile per il radicalismo. L’Isis nasce da questo passaggio, approfitta dei corridoi siriani per affacciarsi sul Mediterraneo e seguire poi le rotte balcaniche per seminare morte in Europa: dall’attentato al supermercato Kosher di Parigi (due giorni dopo la strage di Charlie Hebdo, rivendicata poi da Al-Qaeda) al massacro del Bataclan e alle stragi di Nizza e Bruxelles fino agli attentati di Berlino, Londra, Manchester e Barcellona. Senza contare ancora New York e Orlando, due attacchi in territorio statunitense che non provocano un numero elevato di vittime ma che incidono sulla ferita mai rimarginata dell’11 settembre.

La minaccia del terrorismo può essere ridotta con l’efficacia del lavoro d’intelligence. L’esempio italiano è virtuoso: uno dei pochi Paesi al momento risparmiato dalla violenza jihadista, protetto da un sistema di antiterrorismo collaudato, eredità degli anni di piombo. Il giorno precedente agli attacchi di Madrid del 2004, i servizi segreti italiani avvisarono i colleghi spagnoli della minaccia incombente. Erano in possesso di informazioni precise riguardo alle intenzioni dei terroristi. Fu troppo tardi ma si rivelò una lezione su come creare un sistema di protezione basato sulla prevenzione.

Negli ultimi venti anni, dopo l’11 settembre, è caduta l’egemonia americana post-guerra fredda. Dallo shock globale del World Trade Center, il cambio di paradigma è avvenuto a partire dall’immaginario, con il contributo decisivo della crisi finanziaria e dell’ascesa della Cina. Incapace di trovare una sintesi tra il “Make America Great Again” di stampo isolazionista e la tradizionale supremazia espansionistica in tema di politica estera. Basti pensare che dopo venti anni il ritorno dei talebani è condito da una volontà di negoziare impossibile fino a venti anni fa, perché oggi il rapporto di forza nelle relazioni con gli Stati Uniti è decisamente meno sbilanciato a favore degli States.

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