“Ero diventata Premier”: la ventiseiesima puntata del romanzo di Cecilia Alfier

Mentre la mia parte Renzi impazziva, la mia parte Silvio Berlusconi era ridotta al silenzio, oserei dire morta, da quando Eugenio era morto. Non so se c’è posto per Eugenio in questa storia, lui mi aiutava sempre a procurarmi nuove sedie a rotelle e altri ausili, mi diceva: “A., salutami Silvio!”. E io glielo salutavo. Poi un giorno Eugenio si è beccato una puntura d’ape che ha fatto una reazione allergica e l’ha ucciso. Con Eugenio se ne andava il sogno di rendere il vero Berlusconi una persona onesta. Sì, lo so, non ha senso come ragionamento, ma il mio modo di pensare era quello. Per il vero Renzi, invece, c’era ancora tempo. Dovevo trovarlo e…spogliarlo.

“Spogliarlo? In senso letterale?” mi chiede Idotta.

Gli spiego che in un punto della mia visione ero in un meraviglioso giardino fiorito, ampio. Sembrava di stare in una location di matrimonio. Ero davanti ai due Matteo, Renzi e Salvini (sì, anche lui) e c’erano centinaia di persone a vedere quello che avrei combinato. Renzi era vestito in giacca e cravatta, ma non era quello il suo vero aspetto. Quindi presi a togliergli gli abiti formali, sotto aveva la divisa da boyscout. Tutti videro i suoi veri vestiti e ne furono illuminati.

“Ti rendi conto che non è successo veramente?”

“Adesso sì”.

“Almeno abbiamo capito perché cercavi di spogliare alcuni pazienti”

Era un’abitudine che avevo preso: quando uno mi sembrava troppo vestito cercavo di liberarlo, per aiutarlo a tirar fuori il suo vero io.

“È lo stesso motivo per cui cerco di sapere il secondo nome e il secondo cognome di tutti, per far loro scoprire la vera identità. Va avanti così da quando ho eliminato Mollica dagli amici, per l’appunto”.

Dovevo denudare Renzi al più presto, tutta la sinistra contava su di me.

Dormivo poco, e mi svegliavo con Ivano Fossati a ripetizione nella testa. “È come un treno che è passato, carico di frutti. Eravamo alla stazione sì, ma dormivamo tutti”. Era quello il problema: dormivano tutti, tranne me. Dovevo svegliarli e il miglior modo era regalare Harry Potter e la Maledizione dell’Erede a chiunque, non importava quanti soldi avrei speso; con un po’ di fortuna la gente avrebbe capito e avrebbe cominciato a fare magie. Mi ricordo un articolo che mi aveva passato mio fratello su Harry Potter che avrebbe sconfitto Donald Trump. E ora, grazie a me, il tempo era giunto! Prima, dopo, o durante la visione, entrai nel centro commerciale vicino a casa.Feci una smorfia. Tutti pensavano che quello fosse una specie di roccaforte del nemico, un covo dove i votanti di Tenero Orsacchiotto si davano appuntamento per svagarsi coi loro passatempi frivoli. Ma io sapevo che non era così, era un posto brulicante di idee e di persone. Come quell’erborista che voleva aprire una cooperativa per donne lavoratrici. “Eh, ma se non cambiamo le cose in Italia…! Menomale che ci sono i Cinque Stelle” brontolava.

“Lasci perdere i Cinque Stelle e scriva a me” rispondevo.

Quel giorno, sospeso fra sogno e realtà, entrai in libreria. Ricordo che c’era un enorme cartellone di Harry Potter e la Camera dei Segreti, nuova edizione Salani. Ce l’avevo a morte con la Salani, perché aveva lasciato i nomi in lingua originale. Aveva allontanato Harry dalla gente, a mio parere. Poi c’era stata la Brexit e Harry si era allontanato ancora di più. Era tutto collegato, magicamente. Scavalcai la fila davanti alla cassa e insistetti per regalare un Harry Potter. Alla fine la cassiera trovò una signora che lo stava già comprando, così lo regalai a lei. Pagai con la carta, digitai la sequenza di numeri che mi stava ossessionando. Sul display comparve la scritta “transazione eseguita”, ma io lessi “TRANSIZIONE eseguita” e lì cominciò la seconda parte dello show.

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