“Ero diventata Premier”: la ventiquattresima puntata del romanzo di Cecilia Alfier

Giorgio e Olivia risero, tutti risero. Mi sistemai a capotavola e non mi mossi per molto tempo. C’era parecchia gente che parlava del referendum.

“Sì!” “No!” “Sì!”. Come cane e gatto.

“Vedi,” dissi a Marco “discutono fra di loro, ma nessuno riuscirà mai a convincere l’altro, è come se parlassero due lingue diverse”. Ma lui non mi ascoltava più, parlava di musica col suo vicino. Allora io smisi di ascoltare cane e gatto e mi inserii nella conversazione, anche se di musica non capivo nulla. “Nessuna donna può amare veramente uno che ascolta Phil Collins” dissi.  Era la battuta di un film che avevo appena visto e non c’entrava niente con quello che Marco stava dicendo, ma all’epoca avevo qualcosa da aggiungere su ogni argomento. Io e Marco fummo fra gli ultimi a lasciare quella casa. Eravamo quasi sulla porta (sempre aperta) quando Emanuela mi fermò. “Non so cosa votare, non voglio votare sì perché lo fanno mio marito e i maggiori dei miei figli”.

“Vota ciò che vuoi” le dissi, prendendole la mano. Poi le spiegai la riforma, come la spiegavo io, senza tecnicismi. Alla fine Emanuela si illuminò: “Nessuno me l’aveva mai raccontata così. Voterò sì”. Perfetto, peccato che la campagna elettorale fosse finita, proprio ora che avevo trovato il modo di convincere la gente.

“Mentre parlavi, il freno sinistro ha ceduto” mi fece notare Marco.

Quella notte dormii bene, ma continuavo a pensare alle parole di Olivia: “dovresti parlare così di politica ai ragazzi, ti ascolterebbero”. Presto avrei radunato una schiera di ragazzi attorno a me.

Il giorno dopo ero al seggio, dove è iniziato tutto. Riuscii a mettere quella dannata croce sul sì e poi, uscendo dalla cabina, mi sentii come svuotata: avevo compiuto un’impresa politica memorabile, avevo votato sì per i miei amici, ma fosse stato per me avrei barrato quel no con tanto piacere. Avevo appena compiuto il primo passo di una sfolgorante carriera politica. Ero debolissima, la persona più debole al mondo, eppure mi sentivo molto forte. Dovevo cominciare subito a raccogliere elettori. Mi feci mettere il cappotto dagli scrutatori di seggio e uscii momentaneamente dalla stanza. All’uscita incrociai mio padre, pensai che anche lui dovesse essere utile. In quanto leader del centrosinistra non dovevo dimenticare le mie radici. Quindi mi feci abbottonare il cappotto da lui.

Durante e dopo la cena mi comportai in modo strano, lasciai ambigui messaggi all’interno di libri e borse. Misi una poesia dentro la borsa di mia sorella, con la raccomandazione di aprirla solo dopo diciannove anni. Non fate domande. Aprii un libro, un grosso tomo regalatomi da una pittrice, si intitolava Novecento-unavita, parlava di un artista. Erano almeno settecento pagine, individuai la numero 394 e vi scrissi col pennarello nero le seguenti parole: Bolzano, Putin e il Nulla. Poi aggiunsi a penna: “Non benedire il PD”.

Chissà cosa volevo comunicare. Feci lo stesso con Harry Potter e la Maledizione dell’Erede (che non era neanche mio, me l’avevano prestato), scrissi sulla prima pagina “You can telleverybodythisisyoursong” (credo fosse rivolto a mio figlio), poi ci disegnai delle uova con altre frasi senza senso. Dopo aver lasciato questi messaggi più o meno criptati, tornai al seggio per lo spoglio delle schede.

Il responsabile del seggio rovesciò l’urna e tutte le schede si riversarono sul tavolo. Volevo avvicinarmi, toccarle, vedere come era fatta la croce sul sì o sul no, ma mi fu impedito. In quel momento entrò un funzionario, non mi ricordo a far cosa. Cominciò a dire numeri che per me non avevano senso, ma che erano molto importanti per i responsabili di seggio. Si comportavano come se io non esistessi. In quel momento seppi che il sì, la mia causa, aveva perso. Era incredibile che le persone dentro al seggio avessero dato retta a un burocrate e avessero ignorato me, che ero il leader. Incapace di assistere allo spoglio, uscii dalla stanza e mi sistemai accanto al presepe della scuola, ma persino le statuine erano insopportabili da vedere. I pastori mi guardavano, mi comunicavano cose e io avevo i brividi. In quel momento passò mio padre. “Che ci fai qui? Quant’è stata l’affluenza?”.

“Papà, non ha importanza, abbiamo perso”.

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