“Ero diventata Premier”: la ventinovesima puntata del romanzo di Cecilia Alfier

Dell’altro potenziale padre di mio figlio, non mi va di parlarne, ne ho scritto fin troppo. Fa l’informatico a Parigi, ci siamo incontrati di nuovo dopo tredici anni che non ci vedevamo; all’epoca di cui sto scrivendo era (da poco) accompagnato da una bionda mozzafiato alta due metri. La cosa mi inquietava abbastanza. Per convenzione, chiameremo questo ragazzo X. Nel 2016 gli avevo scritto una mail strappalacrime in cui gli rivelavo il mio amore impossibile e avevo aggiunto: “So che sarai fidanzato con una bionda alta due metri”. E ora, guardando la home di Facebook, mi resi conto che quanto avevo scritto si stava avverando. X mi stava mandando un messaggio chiaro: “Salvami, Ceci, sto con la tipa sbagliata, voglio te”. Così gli inviai qualche messaggio delirante del tipo: “Dimmi chi sei veramente, il tuo vero nome, poi il tuo secondo nome, il cognome di tuo padre e quello di tua madre”. Era una cosa che cercavo di fare con tutti quelli che incontravo in quel periodo. Secondo gli infermieri, volevo rendere tutti nobili. In parte era vero, volevo condurre tutti al loro vero nome. X mi rispose in modo pacato, ma non volle addentrarsi alla ricerca del suo vero io. Ero preoccupata per lui, sembrava senza radici, era inquieto, sempre in viaggio. Sono certa che una parte di lui volesse e voglia tornare in Italia, lui detesta i francesi, esulta quando la loro nazionale di calcio perde.

“X, dimmi il tuo vero nome”.

“X, Cecilia, solo X”.

X era bellissimo la prima volta che lo vidi, ma ora era un nano brutto. Voglio dire, mica tutti invecchiano bene. Però, quando abbiamo cominciato a giocare a scacchi, il cuore mi batteva forte e non ha smesso per tutta la serata.

Questa storia di chiedere a tutti il loro vero nome mi aiutava a distruggere le gerarchie. Era la gerarchia che mi allontanava da Feltracco e da Degli Innocenti. Scrissi una serie di messaggi a Feltracco, gli spedii anche una canzone d’amore, anzi proprio “Una canzone d’amore” di Max Pezzali.

“Professore, ogni volta che la vedo all’università vorrei dirle: ciao Carlo, come stai?”.

“E perché non lo fa?”

“Perché lei è il professore, siamo distanti. La vedo, sa, dare del tu a emeriti storici e dare del lei a me, che non sono nessuno. Non capisco le gerarchie”. Non le capivo e le odiavo. Ricordo il giorno in cui io e Degli Innocenti ci incontrammo per discutere della tesi. Non ero in me e soffrivo di non poterlo abbracciare e chiamare Giovanni. Forse anche lui soffriva di questa distanza. Si abbassò alla mia altezza e mi guardò negli occhi. “Quando sarà laureata potrà chiamarmi Giovanni, glielo prometto”.

Ma stavo raccontando di dicembre 2016, la laurea era ancora un concetto fumoso, estraneo ai miei pensieri. Era, invece, tempo di salvare il mondo, di abbattere le gerarchie. Il momento arrivò, all’una del mattino del sette dicembre, mentre il mondo dormiva. Mi svegliai con gli occhi che lampeggiavano. In realtà non mi ero addormentata, ma di sicuro avevo sognato. Un sogno che sogno non era. È difficile dire quando è cominciato. Mi ricordo che ero in piedi accanto al professor Marchesi, eravamo nel Seicento e assistevamo a un duello fra nobili, uno uccideva l’altro. Allora, davanti al cadavere, trovai il coraggio di parlare.

Non ricordo cosa dissi, ma fu qualcosa che toccò il professor Marchesi nel profondo.. Il suo volto si illuminò tutto e mi disse: “Finalmente hai parlato, erano anni che aspettavamo che tu parlassi. Che tu arrivassi. Speravamo che esistessi. Tu sei la Storia”. Io gli credetti.

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