“Ero diventata Premier”: la ventiduesima puntata del romanzo di Cecilia Alfier

“Sono fascista” urlai. “Ma di sinistra. Userò Serpeverde, ma per il bene. Giocherò a scacchi, ma per pareggiare”. Pronunciai anche il nome della mia malattia per intero. Me ne andai, prima che la signora bionda mi buttasse fuori. Avevo bisogno di acqua, così andai spedita verso uno dei miei bar preferiti, la Yarda. Era un locale di comunisti, dentro si respirava un’aria quasi rivoluzionaria. C’erano tavoli di legno, una foto di Bob Marley e una cartina dell’Africa. La musica era sempre a tutto volume. Avevo festeggiato lì la mia laurea un anno prima. Mia zia, quella che mi ha regalato il braccialetto che ho perso, non aveva resistito due minuti e si era persa il mio magnifico discorso, ovvero: “Quello a cui siamo arrivati non è un punto d’arrivo ma un punto d’inizio”. Era il discorso standard, quello che faceva sempre il mio padrino, Lele. Lui aveva lavorato al CNEL, lo riteneva molto utile, quindi non si poteva neanche toccare il benedetto CNEL.

La Yarda era anche il bar preferito di mio fratello. Un giorno ci siamo incontrati casualmente, mentre lui pranzava con una ragazza. Ci siamo scambiati convenevoli e abbiamo tutt’e due ritenuto che la nostra sorellina, fosse la più intelligente fra noi.

Mi sistemai nel tavolino fuori, dove mio fratello aveva pranzato, e ordinai dell’acqua. In quel momento passò mio cugino, Corrado.

“Cosa c’entra adesso tuo cugino?” interviene Idotta. Detesto quando interrompe i miei voli pindarici. Cerca spesso di riportarmi sulla retta via, di ritrovare il filo logico della storia. De Vincenti, invece, mi guarda, se possibile più preoccupato di prima.

“Se volete aiutarmi fatemi raccontare tutto”

“Sembri un po’ confusa, sicura che tuo cugino sia importante?”

“Assolutamente, anzi sono quasi sicura che il suo sosia sia ricoverato qui con me. Quel giorno avevo pensato molto a mio cugino”.

“Come mai?”

“Avevamo litigato il giorno prima, dopo due anni che non lo vedevo. Non è corretto dire che avevamo litigato, mi ero arrabbiata solo io, lui era rimasto zitto tutto il tempo. C’era tutta la famiglia ad ascoltare, è stata una scena penosa”.

Corrado non si faceva vedere da due anni. È un vegano ipersensibile, uno di quelli che crede alle scie chimiche. Troppo sensibile per venire alle cene di natale, che è il momento dove i rancori sopiti rischiano di venir fuori. Non ho ben capito che lavoro facesse, forse l’organizzatore di eventi, vai a sapere. Dormiva di giorno e viveva di notte. Me lo immaginavo che stazionava nella cantina dei suoi, sempre in preda a una vaga depressione, senza uscire di casa per molto tempo, perché il denaro era finito. Esisteva anche un gruppo Facebook per salvarlo. Ultimamente aveva deciso di tornare alla vita, si era trovato un appartamento per conto suo e usciva un po’ di più. Naturalmente non avrebbe mai approvato la riforma, secondo lui era tutto un complotto del Partito Democratico per impadronirsi del paese e creare un nuovo ordine mondiale. Per lui era tutto un complotto, sempre. Ci eravamo incontrati alla messa di commemorazione del nonno, ma era come se avesse appeso al collo un pesante cartello: “Io voto NO”. Durante la cena faticavo a nascondere il nervosismo. Guardavo mio cugino come se lo dovessi incenerire. Piantavo ben bene la forchetta nel mio pezzo di pollo. “Guarda, Corrado, io mangio carne, sono un’assassina”. Lui stava rapidamente eliminando tutti i prodotti di origine animale dalla dieta. Avevo proprio voglia di litigare, ma lui rimaneva impassibile. Quando finì la tortura della cena, gli feci leggere il famoso articolo per La Voce che Stecca, pensando di convincerlo, ma non funzionò. Allora sbroccai, tirai fuori tutta la bile: “Non è la riforma ad essere anticostituzionale, sei tu! Tu che vivi come un’ameba senza fare un cazzo dalla mattina alla sera. Mi vergogno di averti come cugino”. E sproloquiai un altro po’, con Corrado che non diceva nulla e lo zio che mi faceva segno di calmarmi. Stavo esagerando, diceva. Ma come stavo esagerando? Almeno lo zio doveva essere dalla mia parte!

Alla Yarda anche Corrado mi vide, così ci incontrammo a metà strada. “È il karma che ci ha fatti incontrare” dissi.

“Vero,” rispose “queste forze dell’Universo esistono”.

“Mi dispiace molto per ieri, non pensavo tutte quelle cose”. Cominciavo davvero a credere nelle forze dell’Universo e negli oroscopi. Ogni tanto mi sorprendevo a leggerli e ridere. Perché erano veri.

“Avevi del rancore nei miei confronti ed è venuto fuori, non ti preoccupare”.

Lo abbracciai talmente forte e talmente a lungo che quasi lo soffocavo.

“Ceci, basta, ti prego. Davvero, non sono arrabbiato con te”.

Da quel giorno fu tutto molto strano, era sempre più difficile capire quando sognavo e quando ero sveglia. Mi sentivo come drogata.

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