“Ero diventata Premier”: la ventesima puntata del romanzo di Cecilia Alfier

Io e Michele, il ribelle del partito, eravamo sotto il gazebo del sì, quando lui mi prese le mani e mi guardò negli occhi. “Ho dimenticato mio figlio a scuola, non ho mai dimenticato mio figlio a scuola. Questa campagna elettorale mi sta distruggendo”. Era davvero affranto.

“Vai” gli risposi “Sto io qui”. Tornò venti minuti dopo con un ragazzino di forse dieci anni. Non sembrava troppo dispiaciuto di essere stato dimenticato in realtà, come se immaginasse che una cosa simile sarebbe potuta accadere da un giorno all’altro. Siamo finiti al baretto, quello che Tenero Orsacchiotto aveva fatto aprire poco prima delle elezioni comunali del 2013, per fare colpo. Uno dei camerieri era davvero bello, il figlio di Romano, il tizio dei cervi.

Era vero, comunque: questa campagna elettorale stava tirando fuori il peggio di ognuno e per questo non vedevo l’ora che finisse. D’altra parte percepivo un vago senso d’inutilità. Dopo il referendum non ci sarebbe più stato un argomento tanto interessante per me, né mi sarei più impegnata per qualcosa di così grande. Riempiva le mie giornate, dava loro senso. Fortunatamente stava per cadere il sindaco di Padova (una specie di lone ranger che aveva eliminato i mediatori culturali), quindi la campagna elettorale era assicurata. Ma non mi sarei appassionata a nulla così tanto.

Michele mi confidò che aveva dovuto chiudere Facebook da una settimana perché era stufo di ricevere insulti e di rispondere ai detrattori della riforma. Anch’io passavo ore a ribattere punto su punto, ma fra me e quelli del NO il muro si faceva sempre più spesso. Mi capitava molte volte di litigare, anche con amici di tutta una vita. Me la presi con Super Sab, il ragazzo più buono in circolazione, perché faceva (giustamente) le pulci al testo della Nuova Costituzione. Non sapevo cosa mi stesse capitando, ma qualunque cosa fosse non era nulla di buono, se mi faceva litigare con Sabino.

Era il 2009 e io conoscevo Sabino solo di fama (era normale perché Sab era uno scacchista formidabile). Era la settimana prima della morte di mio nonno e per di più mia madre era a casa con una caviglia rotta. Ma io egoisticamente pensavo solo agli scacchi e giocavo il mitico torneo di Bratto, un paesino lombardo dimenticato da Dio. L’anno prima avevo tentato di scappare di casa per partecipare al torneo, perché c’erano tutti i pezzi grossi e, naturalmente, anche Axel. Quella sera del 2009 in cui conobbi Sabino, c’era un quiz sulla storia degli scacchi, con domande improbabili, del tipo: quale fu la quinta mossa del match maestro uno contro maestro due nel torneo di Stoccolma 1992? La cosa improbabile non erano tanto le domande, quanto il fatto che qualcuno realmente sapesse le risposte. Io non ne sapevo nulla e volevo solo passare la serata col mio passatempo preferito: guardare Axel senza fare assolutamente nulla. Invece Yuri, l’organizzatore del torneo, mi costrinse a giocare in coppia con Sabino. Il ché mi andava anche bene, perché lui era ferrato in materia o almeno così credevo. In realtà lui non ne sapeva granché, copiammo tutte le risposte dal maestro Fabio Bruno. Funzionò alla perfezione, vincemmo il primo premio, un grande salame. Quel salame mi legò per sempre a Sabino. Una volta gli tirai un pugno a livello della mascella. Il poverino non aveva colpa, se non quella di aver vinto una partita a scacchi che io avevo scommesso che avrebbe perso.

A Bratto 2009 passai di categoria, vinsi tutto il vincibile, tranne l’ultima partita. Mio nonno aspettò che il torneo finisse per spegnersi, voleva salutarmi per l’ultima volta. Giorni prima al telefono la sua voce era arrabbiata perché avevo lasciato mamma a casa infortunata, per andare a quello stupido torneo. A nulla era servito dirgli che era stata una delle settimane più belle della mia vita, che aspettavo quel torneo da almeno un anno perché era un torneo di Yuri. Comunque, quel giorno all’ospedale mio nonno ed io facemmo pace. Lui mi disse di fare la brava, che è una frase che dicono gli adulti quando se stanno per andare per molto tempo. Gli presi la mano, la pelle era talmente sottile che mi sembrava di toccargli le vene. Mancò poco che morisse davanti ai miei occhi. Feci qualche considerazione abbastanza banali sulla morte e piansi.

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