“Ero diventata Premier”: la trentatreesima puntata del romanzo di Cecilia Alfier

Per avere un’idea di quanto fosse bella, basta pensare al Salone del Libro di Torino, le stesse luci, la stessa atmosfera, la stessa quantità di gente. All’improvviso tutta questa bellezza si interruppe. Mi ritrovai davanti a Max Mollica, volevo tirargli un pugno sul naso, serrai le dita, preparai il colpo, ma le mie nocche sbatterono contro il vetro. Non ero di fronte a Mollica, ma di fronte a uno specchio. Urlai, nella realtà, nella visione, non lo sapevo più, ormai non distinguevo più il mondo reale dal sogno. Lo specchio si ruppe. Vidi il mio cuore ed Enrico, il ragazzo con cui avevo litigato al telefono, che vi si faceva spazio nella parte sinistra, dando fastidio alla mia parte Matteo Renzi.

Allora comparve Mattarella e mi nominò premier.

E mi svegliai, gridando qualcosa che non ricordo, forse che avevo ricevuto una lettera da Hogwarts o roba simile.

Mi ritrovai in camera dei miei, con mio padre da una parte e mia madre dall’altra. Dovevo superarli se volevo arrivare dal vero Mattarella, sempre ricordandomi che loro non potevano viaggiare nel tempo o trasformarsi in Renzi. Tornai nel passato, quando non ero ancora Presidente del Consiglio. Ero davanti a Degli Innocenti, il giorno dell’inizio dei suoi corsi. Mi guardava intensamente, come se avesse scorto qualcosa in me, qualcosa di grande. Andai ancora più indietro nel tempo, era ora di andare in prima elementare. Ci volevo andare, ma i miei me lo impedivano, forse volevano tenermi a casa perché ero malata.

“Sono Matteo Renzi, ho sei anni e voglio andare a scuola, come gli altri bambini” urlai nella visione e nella realtà.

“No, Cecilia, ne hai 23. Hai finito tutte le scuole” mi disse mamma.

Non capivano: ero davvero andata indietro nel tempo. Quando finalmente riuscii ad andare a scuola, avevo combattuto una lunga battaglia, il mio zaino pesava più di quello degli altri. Avevo la faccia di Renzi e gli insegnanti mi guardavano quasi con timore.

Nella realtà presi a scalciare a ripetere che dovevo frequentare la scuola e discorsi sui libri e mi avete insegnato questo e mi avete insegnato quello, mi avete insegnato cose sbagliate sulla mia vita. Blateramenti senza senso. Mamma mi mise una mano sulla bocca, ma io riuscii a divincolarmi. “Papà, cosa fai se devi parlare, ma te lo impediscono?” I miei occhi erano diversi dal solito, di un azzurro brillante, quasi alieno.

“Cecilia, calmati, fai paura!”

“Ecco cosa mi tocca sopportare,” dissi “ecco cosa mi tocca, ragazzi. Io volevo solo essere un bambino normale”.

“Qui non ci sono ragazzi, siamo solo noi” intervenne mamma.

Ancora una volta non capiva: tutti i miei amici erano collegati con casa nostra. Nella visione che ormai era fusa con la realtà, entrò Tito, il direttore della Voce che Stecca, che mi regalò un libro in cui Kasparov, il grande campione, parlava male del regime di Putin. Quando Tito fu andato via, sentii suonare il campanello. La porta si aprii da sola e sull’entrata comparvero Putin e Trump che volevano portarmi via.

“Li devo fermare” dissi nella realtà.

“Non c’è nessuno, Cecilia, solo noi”.

“Io non ho paura di Putin. Io sono Matteo Renzi e mi dovete dire perché quando parlo inglese sono ridicolo. Vorrei dire I love you, ma non posso, mi hanno insegnato parole che dividono che io non avevo nel mio vocabolario e ora mi esce quel shsh che fa ridere tutti. Per me è molto difficile scegliere fra Ciao e Buongiorno, perché io non vedo le gerarchie, per me siete tutte persone”. Curiosamente, capitò che quando ero a Londra dovessi dire Serpeverde in inglese, ma non riuscii e mi limitai a sibilare, come Matteo. Ero davanti al famoso muro del binario 9  e ¾ e dovevo far la foto in posa col finto carrello, volevo chiedere la sciarpa di Serpeverde, ma mi era uscito dalla bocca solo un “Shsh”.

“Basta, io la faccio ricoverare” disse papà.

“No, Paolo” sussurrò la mamma.

Papà nella visione mi trattava sempre male, mi impediva di guardare i cartoni animati e io ero costretta a divertirmi coi telegiornali. Ma la decisione di ricoverarmi, che io non potevo capire, era vera e mi avrebbe cambiata per sempre. Era notte fonda, mi caricarono su una barella. Continuavo a non capire. Durante il viaggio continuavo a chiedere di essere portata al Consiglio Comunale. Mi sembrò che avessero intuito l’urgenza, perché accesero le sirene. Intanto non la smettevo di blaterare. I miei discorsi, inizialmente incentrati sull’amore universale, perdevano progressivamente senso, fino a diventare singoli vocaboli, sconnessi l’uno dall’altro: “Ventitré, Borgo Padovano, Firenze, Degli Innocenti”.

Forse, alla fine, Trump e Putin erano riusciti a portarmi via. O forse i miei si erano finalmente decisi a portarmi dal Presidente della Repubblica. Volevo raccontargli quello che avevo visto. La corruzione sconfitta e l’Europa veramente unita (sì, avevo sognato anche questo), dove tutti parlavano esperanto. Un modo dove gli storici non litigavano più fra chi studiava l’Alto e chi il Basso Medioevo, un mondo dove Feltracco insegnava alle elementari (era la mia riforma della scuola) e la Costituzione si leggeva tutti i giorni, prima di lezione, prima del Consiglio Comunale, prima del turno di lavoro.

Mattarella doveva conoscere tutto ciò.

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