“Ero diventata Premier”: la tredicesima puntata del romanzo di Cecilia Alfier

L’idea di usare gli scacchi per pareggiare, libera dall’ossessione della vittoria, usarli -insomma- come mezzo di comunicazione anziché di sopraffazione, mi stava seducendo sempre di più.        Racconto a Simonetto che una volta a scuola persi di proposito, non a scacchi. A nascondino.

Ci misi un po’ a capire la tattica vincente. All’inizio spingevo la prima Speedy al massimo, dietro agli altri. Ci nascondevamo dietro a una delle siepi, ad almeno 300 metri dal muro dove il nostro compagno contava. Era una buona soluzione per gli altri, ma non per me. Il nero della Speedy era troppo visibile dietro al fogliame e io non sarei mai riuscita a correre veloce come il resto dei bambini, neanche fondendo il motore. Dovevo studiare un’altra soluzione. La volta dopo mi nascosi dietro al cespuglio più vicino, il primissimo posto dove il contatore avrebbe controllato. Appena sentii i suoi passi avvicinarsi, attivai il motore, passai a destra del pioppo e mi ritrovai dall’altra parte del pioppo. In quell’esatto momento il bambino guardò nel punto dov’ero un attimo prima. Vide solo il selciato e il pioppo, io gli vedevo la schiena e il muretto, verso cui mi diressi a tutta velocità. Lo toccai, urlando “Un, due, tre per me”. Il bambino si chiese come avessi fatto a liberarmi subito, io mi chiesi come mai perdessi tempo con un gioco così stupido. La partita dopo decisi di complicarmi la vita e passare a sinistra del pioppo, pur sapendo che il varco era troppo stretto e Speedy si sarebbe incastrata. Infatti, si incastrò. Quel giorno seppi che passare a sinistra sarebbe stato comunque più complicato. Ma io sarei sempre passata a sinistra, anche a costo di prendermi dei rovi sulle braccia. Finalmente Renzi entrò nell’aula dove lo stavamo aspettando. Ma successe anche un’altra cosa: entrò nel mio ricordo di nascondino, mi camminò accanto e mi disse di passare a sinistra.

Cominciò a parlare dei progetti che il governo aveva per il cambiamento dell’università, confesso di non aver capito tutto per mancanza di competenza. All’inizio provai una fitta d’odio puro, anche se non aveva senso. Matteo Renzi stava salutando alcuni ragazzi che, dopo un periodo all’estero, erano rientrati in Italia, grazie a un progetto del governo. Lo detestai, pensavo: “Riportami mio fratello, visto che sei tanto bravo”.

Alla fine della cerimonia lo aspettai davanti all’uscita principale, prima di scoprire che era uscito per la porta secondaria. Non riuscivo a scrollarmi di dosso la sensazione di averlo già visto, non in TV o sui giornali, ma dal vivo. Mi pareva di conoscerlo da sempre, poi ho capito: tutte le volte che volevo arrendermi e intorno a me vedevo solo buio, era la sua voce che mi diceva di andare avanti. Matteo mi aveva sempre parlato fin dal mio concepimento. Era questa la sensazione che avevo e che crebbe sempre di più. Fino al tre novembre, quando lo incontrai di nuovo al palazzetto Geox, trasformato in “Casa del sì”. Io non avevo ancora deciso cosa votare e scuotevo la testa quando lui parlava, mi pareva un mucchio di fesserie, semplificazioni di un problema complesso, qual era la riforma. Ricordo che fece dell’ironia sulle eminenti elezioni americane, ironia sul presidente. “Speriamo che sia femmina”. E tutta la platea a ridere come degli idioti. C’erano anche mio padre e Andrea, l’altro consigliere. Ricordo che volevamo uscire alla chetichella, senza farci notare, ma sbagliammo direzione e finimmo dritti dritti contro lo staff di Renzi. I nostri sguardi si incrociarono. Il mio sguardo non era pieno d’ammirazione (cui lui era abituato) né di odio (cui lui era ugualmente abituato), ma era di compassione allo stato puro. Vedendolo, smise di essere il Presidente del Consiglio, si spogliò dell’arroganza e di tutte le maschere da buffone che era costretto a indossare e tornò a essere il Matteo boyscout. Si inginocchiò davanti a me, mi prese le mani e mi guardò con una profondità che non credevo possibile. Lo staff cercava di portarlo via, ma lui volle resistere davanti a me.

“Come stai?” mi chiese. Veramente gli importava della risposta.

“Bene” risposi, forse mentendo.

“Cosa fai nella vita?”

“Il consigliere comunale”. Ancora una volta una risposta parziale.

“E dove lo fai?” chiese ancora Renzi.

“A Borgo Padovano”

Storse la bocca, facendomi capire che non si ricordava questa località. Pensai a quanto erano assurde le accuse di svolta autoritaria. L’uomo che avevo di fronte non poteva avere controllo smisurato su tutto.

“E come va?”

“Male” risposi.                                                                                                                                  

“Siamo in minoranza?”

Annuii, sorridendo. Poi lo staff riuscì a trascinarlo via da me. “Siamo”, aveva detto proprio “Siamo”, usando la prima persona plurale. Chissà perché la cosa mi colpì molto. “Noi”. Innanzitutto voleva dire che un’idea di squadra Renzi ce l’aveva, anche se subordinata al suo ego. In secondo luogo il “noi” mi investiva personalmente e mi piaceva, mi piaceva essere dentro al Partito. Quando Renzi mi prese le mani, successe una cosa strana: tutti gli errori dei dem ricaddero su di me, come se io avessi responsabilità dirette per tutte le riforme sbagliate dal governo Renzi. Era assurdo, eppure lo pensavo. Mi resi conto che la tessera di partito, che avevo accettato senza troppe riflessioni per aiutare Andrea (l’amico che è in consiglio con me), quella tessera mi stava dividendo dai miei coetanei, almeno nei miei pensieri.

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