“Ero diventata Premier”: la terza puntata del romanzo di Cecilia Alfier

La mattina in cui persi il bracciale, Degli Innocenti aveva assegnato a ognuno di noi dei libri da leggere per la relazione finale scritta, da consegnare prima dell’orale. Ognuno di noi gli aveva indicato un tema diverso, a seconda dei propri interessi, andava bene tutto, purché rimanessimo all’interno del Novecento. Io cercavo qualcosa che c’entrasse col corso, ma che mi aiutasse anche a capire le ragioni della riforma costituzionale. Insomma due piccioni con una fava. Ne era venuto fuori un argomento complesso che si addentrava nei meandri della giurisprudenza che io non conoscevo. Volevo tagliarmi le vene per lungo. La necessità di un aggiornamento della mia identità per guadagnarmi la stima di Giovanni Degli Innocenti era ormai impellente. Perché io, che venivo da lettere moderne, facevo ridere i miei amici storici o aspiranti tali. Il prof mi guardava, sempre con quella allegria che secondo me era tristezza mascherata, e mi domandava: “A., cos’ha letto questa settimana?” (Di storia e di politica ovviamente)

E io candidamente “Il Trono di Spade”. E ridevano tutti e lui mi invitava a lasciar perdere con il fantasy.

Quella sera di ottobre 2016, insomma, dopo la lezione, anzi dopo tre lezioni di seguito, ero molto stanca. Appoggiai il mio bracciale accanto al letto e il giorno dopo non c’era più. Intendevo, il bracciale col mio nome non c’era più. Il letto era ancora lì. Ero disperata, ma non avevo tempo di cercarlo. Trenta minuti di ritardo erano intollerabili (per me, non per Degli Innocenti, il quale non batteva ciglio). Trenta minuti erano il mio ritardo abituale, se mi fossi messa pure a cercare uno stupido pezzo di metallo, sarei entrata a lezione finita. All’epoca avevo giornate movimentate: alle otto andavo da Degli Innocenti ed era il 1946 e gli alleati stavano arrivando e volevano giustizia rapida nei confronti dei fascisti, anche i comitati di partigiani volevano giustizia, ma a modo loro, con altri criteri, nel frattempo bisognava scrivere la Costituzione, quindi i comunisti dovevano mettere da parte le divergenze col resto del panorama politico; poi andavo in bagno, cambiavo edificio ed entravo a Storia dell’Università col professor Inoa[1](prima prendevo il caffè che mi salvava la vita) ed era improvvisamente il 1100 quasi 1200 e il maestro Abelardo stava rivoluzionando il modo di insegnare all’università medievale; poi prendevo il pranzo e andavo a lezione da Marchesi e lì era difficile dire l’anno, a volte era il 1400 a Venezia ed era appena stata annunciata la serrata del Gran Consiglio (bisognava essere nobili per entrare ora) oppure era il 1500, a volte il 1600 e facevo fatica a stare dietro al prof Marchesi perché non avevo dato l’esame di Storia Moderna; poi la sera papà mi portava a un confronto Sì/No, visto che si discuteva se modificare la Costituzione che i comunisti avevano contribuito a scrivere alle nove del mattino. In un giorno per me era come se fossero passati sette secoli, senza ordine cronologico. Ogni notte, anche se non me ne rendevo conto era sempre più difficile addormentarmi. Anche la tentazione di chiedere che anno fosse era sempre più stuzzicante. Avere al polso il mio nome mi aiutava a non perdermi nella Storia, a conservare le mie identità tutte insieme.


[1]Anagramma di “Noia”.

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