“Ero diventata Premier”: la settima puntata del romanzo di Cecilia Alfier

“Sì, sì nel senso che ho capito e voterò sì, se trovo il coraggio di andare al seggio”.

“Ci vada, A.. So che è un periodo difficile per lei, ma l’importante è partecipare e andare avanti”. Desideravo che la scala non finisse mai, non volevo che mi mettesse giù. Il viaggio verso il Sì era stato pieno di ostacoli come quella scala, ma il giorno del dolcetto ero pervenuta a una decisione definitiva, dopo aver parlato col sindaco. Degli Innocenti mi chiese come ero giunta a prendere posizione: “Chi l’ha convinta a votare sì? Non è un’impresa facile convincerla di qualcosa”.

“Se ci tiene glielo dico”. Stavo per svenire, a causa della gente, della confusione nella mia mente. Qualcosa nella mia testa si stava già frantumando.

Avevamo abbastanza tempo per parlare. Mi portò su e giù per le scale un paio di volte per la pausa pranzo. Allora la mia trasformazione in Sherlock Holmes era già ad un punto di non ritorno. Uno Sherlock in versione estremamente socievole. Ceci, mi dissi, se vuoi conoscere come sono questi storici guarda come si comportano in contesti non accademici, durante il pranzo ad esempio. C’erano almeno quaranta persone e io non avevo ancora sviluppato la vista selettiva (un superpotere che mi permetteva di focalizzarmi su unico particolare o una sola persona in modo da non perdermi), dunque dovevo analizzare più persone e quest’operazione mi stancava. Avevo un aspetto sfinito, motivo per cui chiunque, compreso Feltracco, voleva rifilarmi degli zuccheri aggiuntivi. Lezione di vita importante: se trenta professori universitari ti dicono che hai bisogno di un dolcetto è perché hai bisogno di un dolcetto. Solo Giovanni non mi offrì dolcetti, mi offrì il suo fisico per riportarmi nell’aula. E poi mi spezzò il cuore: “A., devo andare, non posso riportarla indietro, ma ci sono gli studenti e i colleghi”. Perfetto, mi aveva abbandonato prima della transizione più importante. Ruggero si offrì di portarmi giù, io rifiutai: “Hai 75 anni, vuoi morire?” “A volte sì, non so proprio che ci faccio qui”. Lui era lo studente anziano (laureato da qualche anno, era un semplice uditore, a volte correggeva i professori, ma perché poteva permetterselo), faceva un po’ il nonno di tutti, era amico del professor Marchesi, passava il tempo nell’orto, oppure correggendo tesine o saccheggiando gli archivi alla ricerca di tracce di processi per stregoneria. Aveva svolto molti lavori, aveva girato il mondo e aveva un sacco di storielle interessanti da raccontare, ma non aveva mai giocato, quindi lo faceva adesso con i libri. Era un vecchio comunista, un gigante buono, fiero oppositore della riforma fin da quando era concepita. Fu lui a parlarmene per la prima volta, come di un attentato che Renzi stava organizzando ai danni della costituzione. Ero tornata a casa piangendo. Comunque, non ho mai litigato con Ruggero, a differenza di altri, essenzialmente perché aveva una certa età e difficilmente gli avrei fatto cambiare idea, probabilmente non mi avrebbe più aiutato con gli esami se gli avessi ricordato che votavo sì. Chissà perché mi aveva preso in simpatia e conoscerlo si era rivelato un punto a mio favore anche con il Degli Innocenti “Ah, A., conosce Ruggero, questo è bene”. Ruggero pareva un’istituzione dentro l’Università, non potevo certo permettergli di rovinarsi il fisico, poi l’Università mi avrebbe chiesto i danni. Alla fine, due figure ignote mi portarono al piano terra. Andrea e Matteo, si chiamavano. “Non siamo forti come Giovanni”, ammisero.

Ruggero mi invitò a una conferenza che teneva lui.

Uscii dalla cabina elettorale, dichiarando che avevo bisogno di un dolcetto.

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