“Ero diventata Premier”: la sesta puntata del romanzo di Cecilia Alfier

Se perdevo il tram era un messaggio dell’Universo per me; se un libro era fuori posto in casa era anche quello un messaggio e così via. Il problema vero fu quando i miei codici del bancomat, della carta superflash e del libretto postale cominciarono a diventare messaggi dell’Universo…

Non dico messaggi per me, perché a quel punto non ero più sicura che esistesse un Me, ma in quel momento ero già persa, ci arriveremo per tappe. A piccoli passi, a volte sbaglio perché non me ne intendo di passi. Mi stavo rapidamente trasformando in Jim Carrey nel film “Il numero 23”: il primo numero del libretto postale è 23, le due cifre centrali della superflash sono due e tre. 23 è il nome del negozio di dischi vicino al dipartimento di storia. Lo usavo i primi giorni di Magistrale, quando non conoscevo la strada, per orientarmi. Appena vedevo la scritta Ventitré ero felice, perché sapevo di non essermi persa. Ventitré erano gli anni che avevo quando mi esplose questa bomba nel cervello. Sì, vi sto rivelando i codici per aprire sia il mio conto in banca che quello in posta perché sono matta. Certo che vi sto dando quelli veri (in realtà nel frattempo sono cambiati, naturalmente). Stranamente, mentre tutte le altre cifre si incidevano a fuoco nella mia memoria, più i giorni passavano più faticavo a ricordarmi cosa venisse dopo 2 e 3 (23) nel mio postmat. Eppure era una cifra, così semplice. La notte fra il 6 e il 7 dicembre me la dimenticai completamente. E i miei chiamarono l’ambulanza. La cifra era un banalissimo quattro.

Il punto era che credevo di star bene, vivevo ogni emozione fino in fondo, entravo nella mente delle persone e capivo tutto e le leggevo come libri aperti. E i libri, i libri veri erano una cosa meravigliosa. Ogni parola aveva una potenza di fuoco notevole, mi sembrò di non aver mai letto nulla prima. Finalmente avevo capito tutto di Harry Potter…

Ma non stavo bene. Era evidente a tutti lì al seminario poco prima della morte di Marchesi Senior. Si teneva in un’ala del dipartimento senza ascensore. Carlo Feltracco, uno dei più grandi sapienti della città di Padova, affiancato da un paio di studenti, si offrì di aiutarmi. Era stato il mio relatore di tesi alla triennale. L’avevo fatto dannare inizialmente, ma poi avevamo lavorato bene insieme. Lui era uno che non aveva paura di dare alle cose il loro nome. Quando lo sentii per la prima volta la parola “Fascismo”, seppi che la F era maiuscola, mi si gelò il sangue. Per la cronaca, lui votava sì. Mi disse proprio che la vittoria del No sarebbe stata la rovina della nazione. Quel giorno avrebbe parlato a fianco della Carlassare, una giurista famosa, nota alle cronache per essere una delle più accanite oppositrici della Riforma. Insomma, cosa mi importava del seminario? Ero lì per vedere scorrere del sangue. Scorsi Degli Innocenti nel mio campo visivo, dunque respinsi l’offerta di Feltracco. “No grazie, voglio Degli Innocenti”.

Feltracco rise: “Lui sarebbe migliore di me?”

“A livello di insegnamento no, ma di costituzione fisica sì, ispira più fiducia. Lei in confronto sembra vecchio e stanco. Con Degli Innocenti so che arriverò intera in cima alla scala. Dopotutto la scala è una transizione e lui passa la vita a studiare transizioni”. Volevo chiedergli se non gli pareva di aver bisogno di un dolcetto, così per prenderlo in giro di più.

Feltracco continuò a ridere: “Giovanni, Giovanni,” chiamò, “Vieni un po’ qua”.

Ma lui si era avvicinato di sua sponte, vedendomi in difficoltà. “Oh A., ci penso io”. Mi sollevò di peso. Sembravo davvero una bambola in braccio a lui, aveva un buon profumo. “Vorrei che ci fossero più studenti come lei”, mi disse, “Grazie della mail che mi ha mandato, non ne ricevevo una così bella da tanto tempo. Comunque, ha capito cosa votare il 4?”.

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