“Ero diventata Premier”: la sedicesima puntata del romanzo di Cecilia Alfier

Più si avvicinava il referendum e più mail deliranti scrivevo. Scrivevo tanto in generale, spesso se non ci fossero stati i miei genitori avrei fatto a meno di mangiare per scrivere. Scrissi un pezzo per il blog (la Voce che Stecca, schierato per il No) a favore del sì, un pezzo nel quale dimostravo in modo incontrovertibile che chi odiava Renzi doveva votare sì, con un’ampia digressione storica di cui andavo fierissima, che il direttore del blog (per altro mio amico) mi tagliò in gran parte, dicendo che non pubblicava falsità. Io, convinta (come sono convinta tuttora) che falsità non ve ne fossero, reagì male e pubblicai (per poco tempo) il nostro scambio di mail (dove il direttore mi garantiva la massima correttezza) sul gruppo Facebook della redazione. Tito, il direttore, minacciò di denunciarmi, allora io mi ripigliai e chiesi scusa. Dopotutto i tagli nulla toglievano al concetto principale, anzi gli davano più forza. Tito promise che mi avrebbe risposto per le rime. E così abbiamo avuto un buon dibattito sì/no, meglio di certi talk show televisivi. L’articolo che scrissi aveva una genesi ben precisa, nasceva da un’incazzatura. In quei mesi prendevo fuoco facilmente. Comunque, i lettori e gli elettori diedero ragione a Tito, inutile dirlo.

Ah sì, devo raccontare dell’incazzatura. Fu colpa di Andrea, il mio insegnante di danza. Sì, avevo un insegnante di ballo latino-americano. Una volta, scherzando, gli dissi di mettere su Leonard Cohen. Il giorno dopo Leonard Cohen morì. Da quel momento sono stata più attenta alle mie richieste musicali che non c’entravano mai col latino americano. Andrea, di poco più grande di me, un giorno disse a tutti i corsisti di danza: “Deve vincere il No, l’ha detto D’Alema, c’è un complotto dietro il Sì”. A sentire nominare D’Alema mi montò dentro una rabbia incontenibile. La voce di Matteo Renzi, il mio Matteo interiore parlò, ma stavolta ad alta voce, all’esterno, invece che solo nella mia testa: “Non accetto lezioni di democrazia da chi ha sentito D’Alema parlare due minuti. Deve vincere il Sì, piantatela, tutti quanti”. Calò il gelo fra gli astanti. Io nemmeno ci volevo venire a ballo latino-americano. Mi ci aveva trascinato Silvia, una ragazza del quartiere più vecchia di me e di Andrea. Era una danza pensata per la carrozzina: non prevedeva movimenti delle gambe, solo braccia, busto e testa. Andrea ci insegnava le coreografie nel parco di quartiere o nella casa per le associazioni davanti alla Chiesa. Non sembra, ma Andrea è uno che ha collaborato col governo Renzi: gli è nato un figlio nel giorno del fertilityday! Ci esibivamo anche nelle sagre, la scuola si chiamava Brava Cuba. Dopo la prima esibizione, mandai una mail di fuoco al povero Andrea, che era innocente, perché il numero nostro non mi era piaciuto. Non avevamo le divise, come a dire che non eravamo ballerini come gli altri; non c’era permesso ballare coi “normo” (normodotati ndr), dunque l’integrazione non era che apparente. L’email funzionò: all’esibizione dopo fummo dotati di divisa col logo di Brava Cuba e l’ultima coreografia l’abbiamo eseguita insieme ai normo. Vittoria! Adesso che vi scrivo ho perso i contatti sia con Andrea che con Silvia, c’est la vie. Fu a seguito di quell’incazzatura che scrissi il pezzo per Tito.

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