“Puoi raccontarci altre cose di quello che è successo al seggio, Cecilia?”. È il 23 dicembre, sono passati diciannove giorni dal referendum, dovrei essere in consiglio ad approvare il bilancio, invece sono distesa su una barella verde, mia madre mi tiene la mano e io non la smetto di straparlare. Questa storia di salvare il mondo richiede più tempo del previsto, mentre il male avanza rapidamente. È il trentesimo medico in quindici giorni. Dormo poco e sveglio anche il resto della famiglia, ho un blocco all’intestino, ma mangio comunque più del solito. Ora che sto scrivendo dopo un anno finalmente ho abbastanza controllo su me stessa per rispondere a questa domanda, anche se non ha più tanta importanza ormai. Non pretendo vi sia chiaro tutto, come del resto non è chiaro a me, ma qualcosa la dovete pur capire di quello che succedeva nel mio cervello circa un anno fa.
Quand’ero ragazzina, fino ai sedici anni, ogni volta che sentivo il verbo “godere” in qualsiasi contesto in qualche modo lo associavo al sesso ed ero percorsa da un brivido. Nel 2016 la stessa cosa (con un riferimento al sesso davvero minimo) mi succedeva con la parola TRANSIZIONE. In primo luogo perché stavo seguendo un corso universitario incentrato sulla transizione fra fascismo e stato democratico. Il giorno di settembre 2016 in cui il corso cominciava, il professor Degli Innocenti parlava già da mezz’ora quando entrai. La porta doppia aveva messo a dura prova la mia pazienza, ma ero già stata in quell’aula e tutto sommato era una bella sistemazione. Il professore non sembrava arrabbiato per essere stato interrotto, al contrario mi guardò tutto allegro. È una di quelle persone che quando ti guardano sembra ti leggano dentro. Ci guardammo e io seppi che lui sapeva esattamente da quanto tempo non aprivo un libro di storia. A parte la pancia, un po’ gonfia per l’eccesso di birra, era un uomo dal fascino stellare e io non riuscii a staccargli gli occhi di dosso per le successive due ore. Si informò brevemente sulla mia vita universitaria, mi diede un pacco di fotocopie (segno evidente che disprezzava la tecnologia, infatti era uno dei pochi che non caricava materiale sulla piattaforma internet) e riprese la lezione. Parlò essenzialmente di politica e magistratura; e ogni parola mi apriva un mondo e volevo assorbirle tutte, come una spugna. Parlava strascicando tutte le c, perché l’era toscano, di Firenze, e questa cosa (pronunciatelo alla toscana, facendo cadere la c) mi attraeva alla follia. Quando uscii dalla sua lezione ebbi delle nuove consapevolezze: Giovanni Degli Innocenti sarebbe stato il mio ultimo professore, chiunque fosse venuto dopo mi avrebbe insegnato solo peggio. Ero innamorata di lui, non come persona fisica, ma per quello che rappresentava, tutta la cultura che avrei voluto possedere, ma che rimaneva un miraggio. Tornando a casa, pensai: la tesi o con lui o con nessuno. Seppi anche che, se volevo sostenere il suo esame, dovevo operare una transizione su me stessa. Non sapevo nulla di quanto fosse complicato il processo in realtà.
La parola transizione echeggiò spesso durante la campagna referendaria. Transizione fra prima e seconda repubblica, fra seconda e terza. Transizione infinita, transizione in tutte le salse.
Questo per giustificare il mio sbigottimento quando al seggio, dopo essermi allontanata dalla calca di elettori, cercai di leggere Harry Potter e La Maledizione dell’Erede in santa pace. Un capitolo si intitolava “transizione”. Volevo urlare dallo spavento, quando un’arzilla vecchietta si avvicinò a me.
“Tu puoi aiutarmi, vero?”, mi disse.
“Signora, faccio il possibile”, risposi. Chiusi il libro e mi predisposi ad ascoltare.
“Ho perso un pezzo della mia vita, del mio puzzle, non riesco a trovarlo”. La mia angoscia crebbe, anch’io avevo perso un pezzo. Una sera di ottobre (due mesi prima del referendum), dopo una lezione di Degli Innocenti. A livello logico e se dovessi parlare da storica, direi che in verità non c’era alcun nesso del tipo causa-effetto fra “l’aver perso un pezzo” e la lezione di Degli Innocenti, ma ogni volta che racconto questo fatto, faccio in modo che le due cose siano intimamente legate l’una all’altra. Si trattava non di un pezzo metaforico, ma di uno fisico, tangibile: un braccialetto che mi regalarono i miei zii Presidente e First Lady[1], un bracciale del tipo nomination, col mio nome intero CECILIA e molti simboli d’oro e d’argento, pure troppi perché mia zia è sempre esagerata quando si tratta di queste cose. Raramente mi affeziono agli oggetti e ai gioielli ancor meno, ma quel bracciale era diverso, lo indossavo ogni mattina da quando avevo dieci anni. Scherzando, dicevo spesso che mi serviva a leggere il mio nome in caso di dimenticanza. Cecilia, che significa “invisibile” o anche “le cose cieche”. Un nome musicale per la protettrice della musica. Cecilia, la bimba morta di peste nei Promessi Sposi. Tutti mi hanno sempre chiamato “Ceci” e io ero talmente abituata al di diminutivo che, ogni volta che sentivo pronunciare il mio nome intero, sentivo puzza di guai.
[1] A salvaguardia della privacy degli zii.