“Ero diventata Premier”: la quinta puntata del romanzo di Cecilia Alfier

In un momento di calma, in cui la fila di elettori si era smaltita, presi a parlare con le due scrutatrici di seggio. Dopo due minuti mi chiesero se per caso stessi studiando scienze politiche. Erano affascinate da me, da tutti i particolari che avevo loro descritto.

“In realtà studio scienze storiche”.

“Wow, ma poi cosa diventi?”

“Diventi quello che vuoi”.

Non capivano cosa intendessi. “Sì, ma che lavoro puoi fare? Tipo una specie di professore?”

“Una specie, sì”.

Le avevo un po’ spaventate e mi allontanai da loro. Si erano messi a commentare il sedere di un ragazzo che passava fuori dalla porta. Capii che dovevo parlare più terra terra se volevo entrare in sintonia con loro. In tutto ciò non sono ancora tornata all’inizio della storia, ovvero non avevo ancora votato.

Prima di entrare in cabina, vidi una merendina sulla cornice di una finestra e decisi che me la meritavo, dopo quella sudatissima croce, perché avevo un calo di zuccheri notevole.

“Lei ha bisogno di un dolcetto, A., lei ha bisogno di un dolcetto”. La frase che avevo sentito tre settimane prima mi riecheggiava nelle orecchie. L’avevo sentita pronunciare più volte durante la pausa pranzo in un seminario di storia moderna organizzato dal professor Marchesi. Due parole sul ruolo di Marchesi in questa storia di follia le devo spendere per forza, anche se non è un personaggio principale. Era un pezzo di pane, un grande essere umano come non se ne vedono molti in giro. Un filosofo, inciampato nella Storia per un incidente di percorso. Nei giorni buoni ci leggeva le lettere di Machiavelli, contenenti segreti sulla sua vita sessuale. Faceva morire dal ridere. Dopo la lezione di Storia dell’università era un toccasana. Sì perché Storia dell’Università era una noia mortale, trascinavo la penna sul foglio, cercando di prendere appunti per non dormire. Era una lezione da liceo, mi ricordava quando alle superiori dopo Storia mi faceva male il braccio da quante date avevo scritto. Battaglie di cui non ricordavo la causa, trattati di pace strampalati e altre battaglie. Personaggi che nascevano e morivano nel giro di sette minuti, senza lasciare traccia alcuna nella mia testa. E Marchesi e Degli Innocenti erano lì a dirmi che no, non era così la storia, me l’avevano insegnata sbagliata negli ultimi anni.

Ricordo il giorno in cui Degli Innocenti si arrabbiò con noi perché…prendevamo appunti. “Cosa state scrivendo?”.

“Sono solo parole chiave professore”.

“Ma quali parole chiave, A.! Metta via la penna e ascolti”.

Obbedii all’istante perché compresi il messaggio: non sono un insegnante di liceo, questo voleva dire Giovanni.

Però avevo detto che parlavo di Marchesi. Aveva una strana “mania” ai danni degli studenti in prima fila: ogni tanto, mentre leggeva, li squadrava uno a uno, con quel suo labbro inferiore sporgente e quei suoi occhi troppo grandi per la sua faccia. Metteva in soggezione, anche perché la sua espressione pareva dire: “Ehi tu, ce l’hai la soluzione a tutti i problemi del cinquecento, vero?”.

Un giorno trovai la porta della lezione, quella noiosa, chiusa, oserei dire sprangata. “Il professor Inoa non c’è”, mi informò una mia compagna di corso, “ho fatto un viaggio a vuoto anch’io”. Non è a vuoto, pensai, vedendo il professor Marchesi discorrere dei massimi sistemi. Mi avvicinai incuriosita e lo lasciai sproloquiare di non so quali astrazioni per un po’. Poi quando il discorso raggiunse le cime più elevate del sapere umano, parlai: “Sì prof, ma che lavoro dobbiamo fare per l’esame?”

Sentii Marchesi che cadeva dalle nuvole. “Ha ragione, Cecilia, devo tornare coi piedi per terra”. Scoppiò a ridere.

Marchesi non venne a lezione per tutta la settimana successiva. Nel bagno di casa aveva trovato suo padre. Morto. Era solo la morte di un vecchio sconosciuto, non avrebbe dovuto toccarmi tanto, né caricarsi di chissà quale valore simbolico. Ma all’epoca tutto aveva cominciato a caricarsi di valore simbolico.

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