“Ero diventata Premier”: la quindicesima puntata del romanzo di Cecilia Alfier

Chiesi a Matteo Toppo se per caso gli andava di fare il premier, in virtù del suo nome. Scoppiò a ridere. “Mi accontenterei di fare il sindaco di B.” rispose. Successe piano piano una cosa strana: Matteo cessò di essere una persona, quel bel ragazzo in carne che mi offriva il caffè, e divenne una metafora. In lui vedevo il sogno politico, l’utopia, e per raggiungerlo dovevo per forza ascoltare tutti gli altri, compresa M T, che era la più rompiscatole. Vedeva ed evidenziava  sempre e solo problemi durante il laboratorio, pontificava per diversi minuti sulle inefficienze statali. Dovetti aspettare che lei se ne andasse per illustrare la mia visione della riforma, una metafora con casa mia.                                               

Abitavo al numero sette di via XXX, scala a, da non confondersi con la scala b. Spesso succedeva questo: i miei amici suonavano il citofono, io non sentivo ed ero irraggiungibile al cellulare. Finalmente, dopo svariate suonate di citofono, aprivo. Prima la porta di casa, poi il resto, perché per arrivare col dito al citofono dovevo mettermi esattamente parallela al suddetto citofono. Aprivo, ma il cancello elettrico era bloccato, quindi io aspettavo invano. Finalmente i miei amici scavalcavano il cancello, ma sbagliavano scala. Nel frattempo dovevo chiudere la porta d’ingresso, sennò scappava il gattino. Se scappava il gattino mia sorella mi uccideva. Per me la riforma era l’equivalente di un cartello sulla porta della scala b, con scritto “Cecilia non è qui”. Il problema è che era un cartello scritto in cinese per quanto male era scritta. Il mio amico Leo, futuro avvocato, avrebbe detto No al cartello. Spiegavo così la riforma, mi inventavo ogni giorno nuove metafore, che manco Bersani. Agli incontri sì contro no mi sentivo sempre più in dovere di intervenire. Durante il discorso di un’avvocatessa in favore del no (per il sì c’era il senatore Armanini) mi lasciai sfuggire un’imprecazione. “La Costituzione è una Ferrari” disse l’oratrice “E la Ferrari non si cambia”. Applausi. Alla fine della serata la presi da parte, la guardai negli occhi e le chiesi quand’era stata l’ultima volta che aveva provato a vincere un gran premio con una Ferrari del 1946. Lei, intimidita, disse che ci avrebbe pensato.

Comunque, Matteo Toppo non era l’unica persona che si stava trasformando in metafora. Anche Bella, la mia fisioterapista, si stava trasformando. All’epoca scrivevo molto, ero grafomane, le scrissi una mail dopo la nostra uscita al cinema. Successe che lei mi invitò al cinema, era la prima volta che ci vedevamo fuori dall’orario di lavoro. Dovevamo vedere “In Guerra per Amore” di Pif, il noto personaggio televisivo. Sarebbero venuti anche il fratello e il marito di Bella. Ma l’invito al cinema non era un semplice invito al cinema: nella mia testa si era mutato in qualcosa di più profondo. Era evidente che Bella mi stesse chiedendo aiuto per salvare il suo matrimonio. Almeno, era evidente per me. Nel primo periodo in cui Bella era diventata la mia fisioterapista, lei si era assentata un paio di settimane ed era ricomparsa con una fede al dito. Avevo dovuto notarla io, perché Bella non mi aveva detto niente. Però, da qualche mese la fede era sparita. D’improvviso pesava, era un pericolo per i pazienti. Così pensai che il suo matrimonio fosse in crisi e che lei mi stesse chiedendo una mano. All’epoca mi davo un sacco di responsabilità che non avevo. Aspettavo che Bella finisse di lavorare, intanto leggevo per il professor Degli Innocenti. Non staccavo il cervello mai. Arrivati al cinema, passai accanto al marito di Bella come fosse uno sconosciuto. Mi aspettavo un principe azzurro, invece Marco era un tipo ordinario (c’era anche lui nella mia visione, cadeva in una botola). Comunista fino al midollo, rappresentante dei lavoratori, la foto di Lenin all’ingresso di casa.

Il film mi colpì sul finale perché attaccava la Democrazia Cristiana. Arrivata a casa, cominciai a scrivere a Bella l’email di cui parlavo, era delirante e per fortuna lei non la lesse mai. E Bella diventò una metafora. Siccome tutti le mettevano i piedi in testa al lavoro e poi a casa le toccava sorbirsi Marco, diventò la Bontà.

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