“Ero diventata Premier”: la quattordicesima puntata del romanzo di Cecilia Alfier

Ripensavo al recente incontro che avevo avuto, anche se solo in lontananza, con Tito Boeri, presidente dell’INPS, il quale aveva detto delle cose interessanti. Nella scala di valori dei giovani la fiducia nei partiti occupava l’ultimo posto. E ancora: non sapevano di preciso quanti fossero gli immigrati, ma erano comunque troppi. La cosa mi fece sorridere. Avevo incontrato Tito Boeri in occasione di una giornata speciale, chiamata Opening Field, legata alla scuola di formazione sociopolitica che stavo frequentando. Ricordo che volevo chiedergli scusa per tutti i soldi che avevo rubato all’INPS. Mi ritenevo una falsa invalida, roba da matti. La scuola era organizzata dalla Facoltà Teologica di Padova e parlava dei diritti dei migranti. Papà aveva accettato di iscriversi al primo anno per accompagnarmi, anche se aveva competenze da secondo. Fu un’esperienza importante, un tassello per capire il mio attacco di follia. Stavo sempre vicina a Matteo, non Renzi, Matteo Toppo, un compagno di laboratorio. Dopo la lezione frontale il laboratorio era parte integrante della formazione. Divisi in due gruppi, io nel gruppo A, papà nel gruppo B, ci scambiavamo opinioni sull’argomento del giorno. C’erano molti amministratori, frustrati come me. Secondo mio padre, i laboratori erano chiacchiere inconcludenti; secondo me invece erano interessanti. Matteo Toppo parlava poco e ascoltava molto, come me. Anche lui aveva una doppia vita: di giorno dipendente alla Decathlon, di notte consigliere comunale nel paese di Bovolenta. Fidanzatissimo e intoccabile, ovviamente. Il primo giorno che mi vide capì subito di cosa avevo bisogno: un caffè. Lui offriva generosamente caffè a consiglieri e assessori. Come Sofia, anche lei del laboratorio A. Ci siamo scambiati libri e appunti. Il padre non sembra molto entusiasta che lei faccia politica, in verità. Ma in genere è la politica che chiama e noi non si può fare altro che dire sì. Sofia ha scritto un libro su un suo parente pittore, Orlando. Prima o poi lo leggerò. “Empatia”, disse Matteo “quello che provi per me si chiama empatia”. Era una parola quasi nuova per me, forse ero stata empatica in passato, senza rendermene conto.

Confidai solo a Matteo (e naturalmente al professor Degli Innocenti, che avevo eletto a mio confessore, suo malgrado) la mia teoria secondo cui il passaggio di governo Letta-Renzi poteva essere spiegato con una scena di Harry Potter e la Camera dei Segreti. Ci sono Harry e Draco Malfoy che stanno duellando davanti a un discreto pubblico, gran parte della scuola. In prima fila c’è Justin di Tassorosso. Improvvisamente Malfoy evoca una serpe che va verso Justin. Harry ordina al serpente di fermarsi, ma non sa di aver parlato un’altra lingua, il serpentese, e non sa che parlare il serpentese è prerogativa di Voldemort. Il giorno dopo tutta la scuola ce l’ha con Harry, ma lui non capisce perché. Ecco, la mia impressione è che Renzi, dicendo “Stai sereno” a Letta-Justin, abbia parlato serpentese senza sapere che era male. Quella saga cominciava davvero a bacarmi il cervello. Ebbi la brutta idea di riprendere in mano Harry Potter e l’Ordine della Fenice (forse il più politico di tutti). Non riuscii a terminarlo perché il romanzo cominciò a parlarmi. Ormai non facevo differenza fra Renzi ed Harry Potter. Avrei voluto che qualcuno mi avesse dato due schiaffi ben piazzati.

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