“Ero diventata Premier”: la prima puntata del romanzo di Cecilia Alfier

A distanza di quasi un anno non ricordo quali fossero esattamente le parole del quesito referendario, ma già all’epoca, quando entrai nella cabina elettorale o, meglio, quando la vecchia me – che sarebbe morta di lì a un mese – entrò nella cabina elettorale, quelle parole avevano perso il loro significato letterale ed erano diventate qualcosa di più profondo, quasi una domanda di importanza vitale, riguardante il fine ultimo della mia esistenza sulla Terra. Capite bene ora il peso enorme che la matita aveva assunto nella mia mano. Facendo appello a tutte le mie forze, tracciai una croce nel quadrato del sì, ma senza che il mio dilemma interiore fosse del tutto risolto. Era un dilemma non tanto fra sì e No, quanto fra sì e un terzo riquadro che era andato formandosi nella mia testa durante la campagna elettorale, un riquadro di cui avrei fatto meglio a parlare con qualcuno e che recitava più meno così: No a Renzi, Sì alla sottoscritta Cecilia A.. Pensavo: “Quando divento premier vi faccio vedere io”. Pensavo che quel “quando” fosse l’indomani. Sì, avevo grosse ambizioni un anno fa, mentre ora il mio sogno più grande è riuscire a soffriggere il sugo della pasta senza bruciarlo. Adesso, a guardarla da fuori la mia disputa interiore fa ridere, ma giuro che stavo male. Noi sotto lo stand del sì e l’automobilista che passando ci gridava “Fascisti” era solo la punta dell’iceberg. Sì o no, era così semplice in fondo. Migliaia di italiani si erano svegliati quella mattina e avevano deciso cosa votare così d’impulso, mentre cercavano i calzini nei cassetti.

Che schifo Renzi,

la Costituzione non si tocca.

No!

Fine del ragionamento. E il loro voto valeva come il mio che avevo scavato nella riforma. E, finito di scavare nella riforma, avevo scavato nel mio passato. E per passato intendo anche quel limbo oscuro, che i medici non sono mai riusciti a spiegarsi, che non c’entrava niente con la riforma, ma già che c’ero mi ero interrogata su tutto. Alla fine del limbo oscuro, avevo aperto i miei occhi azzurri al mondo ed ero iper-intelligente e curiosa di tutto, ma davvero piccola e incapace di reggermi in piedi e non c’era nessun luminare della scienza che mi avrebbe mai saputo dire perché. Ma quel giorno al seggio, dentro la cabina, io seppi la verità. Ventitré anni prima mi trovavo nel grande edificio dei non nati, l’esterno non so come apparisse, l’interno era interamente rivestito di mattonelle grigie; a pochi giorni dalla mia nascita, la mia parte Matteo Renzi (che rappresentava la sinistra) e la mia parte Silvio Berlusconi (la destra) avevano litigato furiosamente. “Dobbiamo tentare di camminare”, diceva Matteo. “Non se ne parla neanche”, rispondeva Silvio “ci spaccheremo il naso, non hai visto quanta fatica stanno facendo gli altri, noi siamo più furbi”. Diedi ragione a Silvio e urlai “Matteo, No!”. E venni al mondo.

Quel Sì che stavo per tracciare non era solo un sì a Matteo, era anche un no a Silvio, era il risultato di un percorso che avrei invano cercato di raccontare ai dottori. Di raccontare a chiunque.

Il primo tentativo di croce sul sì fu un disastro. Il ramo in basso a sinistra della X non si vedeva e la suddetta X non stava in piedi. Aggiunsi la gambettina, ma ora la X sembrava spastica, come me. La ripassai e, quando ritenni che le mie intenzioni fossero chiare, chiusi la scheda e uscii di retromarcia dalla cabina. La mano sinistra aveva sostenuto il polso destro, affinché la mano destra potesse tracciare la croce e l’aveva sostenuto con tale violenza che ora il polso mi doleva, ma ero felice. Missione compiuta. Dovevo solo riuscire ad assistere allo spoglio delle schede, poi sarei andata finalmente a dormire, dopo tutto il giorno al seggio. Poi avrei dedicato l’esistenza a cercare di far capire agli altri quello che avevo capito durante la campagna referendaria. In qualità di leader del centrosinistra era mio compito salvare il mondo, una persona alla volta, ero sicura di questo.

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