“Ero diventata Premier”: la nona puntata del romanzo di Cecilia Alfier

Quando avevo cominciato a comportarmi da Sherlock Holmes? Probabilmente mentre studiavo il Partito. La forma della tessera era interessante, suggeriva una certa connessione fra i militanti; e poi avevo una fissa per i Puzzle, per tutti i giochi da tavolo, ma per i puzzle in particolare. Nel 2003, Andrea, il tizio del PD che mi aveva invitato a candidarmi, cercava di entrare in consiglio per la prima volta. Poveraccio, chi gliel’ha fatto fare? Tutti questi anni in consiglio e nemmeno un assessorato. Chiese a mio fratello se poteva aiutarlo a distribuire i volantini. Io stavo in camera a fare un puzzle, che avevo comprato a un mercatino dell’usato, raffigurava Topolino in un campo di calcio, nell’atto di tirare in porta. Ricordo che mi arrabbiai moltissimo perché mancavano nove pezzi. Cinque anni prima ero in casa di amici dei miei, avevo quasi finito un puzzle, quando il piccolo di casa, il figlio dei miei amici, entrò correndo e rovinò tutto.                                             

Quando avevo sedici anni, il padre di questo distruttore di puzzle mi chiese aiuto per il suo pargolo “Cecilia, puoi dare una mano a Michele? Ha cominciato a giocare a scacchi, ma ogni volta l’avversario gli fa un trucco diabolico, sempre lo stesso, e lui perde. È molto triste per questo”. Il fuoco della vendetta mi attraversò gli occhi azzurri. “Certo, certo, vedrai che trovo la soluzione. Non esiste un piano così imbattibile”. Così il pargolo distruttore di puzzle venne a casa mia e mi mostrò il problema. Cercai con tutte le forze di non ridere: era il Matto del Barbiere. Era uno dei trucchi più stupidi della storia, basato sul fatto che la Regina e l’Alfiere minacciavano contemporaneamente un pedone debole accanto al Re, con conseguente Scaccomatto. Questo se l’avversario era stupido o inesperto, sennò la difesa era facile. Non solo, alla fine il difensore aveva una posizione migliore. Guardai Michelino con aria costernata, dichiarai: “Cavolo, Michi, non ho mai visto nulla di così diabolico. Non c’è soluzione, hai appena distrutto un gioco vecchio di 2500 anni, non parlare di questa cosa coi Grandi Maestri, sennò saranno costretti a ucciderti”.

Mi guardò con gli occhi sgranati e l’espressione smarrita. Nemmeno si ricordava della faccenda del puzzle, ci potete scommettere. Decisi che come vendetta (dopo undici anni) andava bene e gli spiegai tutto, facendo finta che non fosse semplice nemmeno per me.

Tutto questo per dire che mi ero messa in testa di ricostruire il puzzle del PD, perché funzionasse. Tipo trecentomila pezzi. Dovevo per forza diventare Sherlock, ero sulla buona strada da almeno un paio d’anni. Più studiavo la cosa e più mi sentivo bene nel Partito, era ed è casa mia, in ogni circolo dove entro mi sento a casa. È come avere tante case sparse in giro per l’Italia, è meraviglioso. Ma era anche una casa con problemi, era come se stesse crollando da un momento all’altro. Diventai un detective anche per salvare casa, insomma. Non solo per quello ovviamente. Ma soprattutto diventai un detective perché era ormai inevitabile.

Immaginate di dover ricostruire un puzzle di trecentomila pezzi da soli. A parte che non lo dovete fare, sennò uscite di testa per forza.  Allora, siete davanti a questo puzzle immenso e non volete chiedere aiuto a nessuno perché siete Wonder Woman. Avrei dovuto cominciare dal bordo, dalle cose più semplici, su cui avevo un potere, alquanto limitato, ma pur sempre un potere.

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