“Ero diventata Premier”: la dodicesima puntata del romanzo di Cecilia Alfier

Finalmente arrivammo al salone attiguo all’aula dove si teneva l’incontro, il salone dove di solito è allestito un buffet, ma quel giorno no. Renzi non aveva tempo di mangiare all’università. Trattenni il fiato mentre filavo sull’ultima rampa. Conduceva alla porta principale, se Matteo fosse già arrivato mi avrebbe vista, avrei interrotto il suo discorso. Già pregustavo la scena imbarazzante. Ma soprattutto trattenni il fiato perché sapevo che vista mi aspettava una volta dentro. Niente streaming, niente schienali delle poltrone, avrei visto la gente in faccia e, soprattutto, avrei visto il soffitto e il muro, tappezzato di stemmi. Era l’aula magna di Harry Potter.

La prima volta che entrai nell’aula era stato per la festa delle matricole, la primissima settimana di università. Mi ero sistemata accanto a una sconosciuta, era un posto nuovo, dovevo farmi degli amici. La sconosciuta non sembrava giovanissima, ma diedi per scontato che lo fosse. All’università sembravano tutti più adulti di me. “Ciao, sono Cecilia, faccio lettere moderne e tu?”

“Io sono la moglie di uno degli oratori”.

Volevo morire. Nota per me: non attaccare bottone in aula magna.

Quel giorno di ottobre (Matteo Renzi non era ancora arrivato) mi ricordai della figuraccia di anni prima, dunque cercai un volto noto. E lo trovai, quello del signor YZ, un prof di fisica. Ma per me era solo Claudio, il padre di tre giocatori di scacchi formidabili: Fabio e i due gemelli Roberto e Sandro, assolutamente indistinguibili. Ci conosciamo dal 2005, quando facevamo lezione di scacchi il sabato pomeriggio nelle viscere dello stadio Euganeo, a Padova. Una sede infame per un circolo di scacchi, ma nonostante questo le avevo sacrificato un sacco di sabati pomeriggio. Fabio, un bravo ragazzo ma un po’ troppo compassato, trovava i suoi fratelli irritanti, quasi un ostacolo alla concentrazione. Io li trovavo spassosi, ma li chiamavo Robandro perché non avevo abbastanza spirito di osservazione. Ora li distinguo grazie alla scacchiera. Mi spiego meglio: con Fabio avevo giocato solo amichevoli, all’inizio vincevo io, ma lui mi ha superato presto e ora me le suona con una facilità imbarazzante. Giocavo con lui soprattutto sulla scacchiera che ho a casa, ispirata alla battaglia di Waterloo (era divertente riuscire a sovvertire la storia, vincendo con Napoleone); mentre coi gemelli ho giocato due partite di torneo ben distinte, anni fa. Ho massacrato Roberto all’ultimo turno del provinciale, ero di bianco e ho distrutto le sue difese, grazie al sacrificio dell’Alfiere. Avevo dato via un intero Alfiere, ma era un cavallo di Troia, ovviamente. Invece, con Sandro era stato tutto più tranquillo, un’apertura in cui entrambi ci sentivamo a nostro agio, l’equilibrio non si rompeva, così ci siamo accordati per pareggiare (pattare, in gergo tecnico). Il mio maestro di allora, sì avevo un maestro di scacchi, Daniele, un figlio dei fiori, pettinato alla Gesù Cristo, rigorosamente vegano, lui mi disse che avevo avuto un gran cuore in quella partita.

“Perché, Daniele?”

“Sapevi che a Sandro bastava una patta per passare di categoria, così ti sei sacrificata.”

“Non ne sapevo nulla, io non gioco mai per la patta”.

Daniele fece una smorfia, rivelando una fila di denti anneriti dal fumo. “Io non ne sarei tanto sicuro. Sennò non avresti mosso la torre lì. La tua torre mi ha parlato, Ceci, la torre nera. Tu ci parli coi tuoi pezzi, vero?”

Ci siamo, pensai, è di nuovo fatto come un caco. “Non abbiamo grandi conversazioni, Daniele, mi odiano tutti.”

Daniele e Jane, una scozzese che insegna inglese ed è più strana di lui, si sono sposati il 2 luglio 2016, in abiti campagnoli. Senza scarpe, ovviamente. Sono arrivata in ritardo alla cerimonia.

Il nervosismo in sala cresce, Renzi ha accumulato mezz’ora di ritardo. Comincia a starmi simpatico, solo per questo. YZ e io ci scherziamo su.

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