“Ero diventata Premier”: la diciottesima puntata del romanzo di Cecilia Alfier

Mi aveva regalato un libro, CX detta “la Bella”, credo si chiamasse “La guarigione” che racconta del lungo soggiorno in ospedale di Pierluigi Bersani: l’autore non lo nomina mai, lo chiama “Vecchio Segretario” in contrapposizione col “Giovane Segretario”, che è una creatura losca che trama alle spalle del protagonista per prendersi il Partito. Bersani, invece, è portatore di valori sani. Ce l’avevo un po’ con Chiara, sia per il libro, sia perché tempo addietro voleva buttar fuori dal partito Michele, uno dei miei militanti preferiti, che era accusato di aver contribuito alla stagnazione del nostro circolo, solo perché è un tipo passionario che si scalda facilmente e fa casino durante le riunioni, che altrimenti sarebbero un mortorio. È un renziano della prima ora, cresciuto nell’odio per i sindacati. Ultimamente si è espulso da solo, ha smesso di venire. Ricordo l’ultima riunione a cui l’ho visto, era a gennaio 2017 dopo il mio ospedale. Tutti i sentimenti negativi li sentivo sul corpo: avevo spesso la gola secca, quando mi arrabbiavo o avrei dovuto farlo. Nell’istante in cui Michele si alza dal tavolo della riunione e se ne va sbattendo la porta, la mia sofferenza silenziosa tocca l’apice. Dopo due ore di discorsi inutili, anche la mia sopportazione ha un limite, ma io, al contrario di Michele, decido di resistere. Sorrido e distribuisco caramelle, in particolare al vecchio Professorone[1]. È stato lui a far infuriare Michele, coi suoi discorsi pessimisti e tutti uguali. Sul fatto che non siamo radicati sul territorio, mentre Tenero Orsacchiotto e i suoi scagnozzi sono ovunque, a ogni festa delle medie. Mi auto-inviterò alla dannata festa delle medie, diceva quella famosa canzone di Elio e le Storie Tese. No, Professorone non farebbe mai una citazione del genere, è un ex professore che sprizza latino da tutti i pori. Estremamente prolisso, fa venire il latte alle ginocchia ogni volta che parla. La rabbia di Michele è più che giustificata. Appena il mio amico renziano se ne va la riunione si fa magicamente più interessante e penso, anche se ho sete da morire, ho fatto bene a resistere. Perché io sono il futuro segretario. Una mia amica me l’ha anche chiesto, mi ha chiesto perché mi occupo degli altri. Le ho risposto con un’alzata di spalle e le ho dato un letto quando ne aveva bisogno. Mi ha chiesto anche cosa diavolo avessi fatto in psichiatria tre per divertirmi, ha detto che lei ci aveva passato due notti ed era un posto orribile. “Non è male, è pieno di personaggi interessanti” ho risposto.

Ottobre 2016 (ci sono cose che non vi ho detto, torno un po’ indietro), ritrovo pre-campagna elettorale in un bar. Mirco (l’altro ex consigliere) ha organizzato tutto, c’è un’aria da cospiratori ma io mi sento a disagio. Tutti tra i miei compagni sanno che la riforma è qualcosa per cui vale la pena battersi. “Io veramente non so cosa votare” dichiaro. Tutti mi guardano come se fossi uno strano alieno. Michele dice che mi appenderà per le orecchie, Mirco ride: “Bella battuta, A.”. Ho sempre avuto un rapporto di amore-odio con Mirco, ci prendiamo in giro a vicenda, con frasi tipo:

“Interessante intervento alla riunione oggi, Cecilia. La prossima volta alzati in piedi, però, che non ti si vedeva”.

E io: “Sei il solito stronzo”.

A quel punto, CX “la Bella”, quella che voleva buttare fuori Michele, non capisce questo tipo di umorismo e dice che Mirco mi offende. In realtà è il nostro modo di dimostrarci affetto. Ho sempre invidiato Mirco, per la sua sicurezza, la sicurezza con cui si presenta. “Piacere, mi chiamo Mirco e sono socialista”. Socialista, come se fosse un attributo del nome e del cognome. Lui sapeva esattamente chi era (ha anche trent’anni più di me), io invece non l’ho mai saputo. Vorrei presentarmi e dire: “Mi chiamo Cecilia e sono democratica”. Ma la verità è che non so cosa significhi essere “democratica”. So di non essere fascista, so di non essere leghista, so soltanto quello che non sono. Se non l’avete capito, è una citazione dal film Balto: “Non è un cane, non è un lupo, sa soltanto quello che non è”. Mirco mi volle come compagna alle elezioni comunali. Mentre faceva campagna per se stesso, invitava la gente a votare anche per me, visto che c’era la possibilità della doppia preferenza. Era la relazione sentimentale più seria che avessi mai avuto. Alla fine gli elettori premiarono me e affossarono Mirco. Non so bene perché, dato che lui era un consigliere molto migliore di me. Probabilmente Mirco era lì da troppo tempo e, detto fra noi, era un po’ una prima donna. Di tutte le sue battaglie la gente ricorda soprattutto la mozione sul dialetto veneto. C’era un assessore che non usava l’italiano, quindi Mirco propose provocatoriamente di usare il dialetto veneto come lingua ufficiale del Consiglio per venire incontro alle sue esigenze.


[1] Personaggio di fantasia risultante da diversi “vecchi compagni”. Nome scelto dalla destra.

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