“Ero diventata Premier”: la diciassettesima puntata del romanzo di Cecilia Alfier

Che poi a me Massimo D’Alema sta pure simpatico, anzi se mi dicesse di gettarmi nel fuoco lo farei. Ma a fine 2016 la mia simpatia nei suoi confronti era solo in embrione. Per quel che ne sapevo D’Alema aveva un governo il cui compito principale era portare a casa le riforme istituzionali, aveva dovuto accettare un accordo con Berlusconi molto più pesante di quello attuale. A questo punto del mio racconto su D’Alema passo alla prima persona singolare e io lo recito proprio: “Avevo questo incarico e ho fallito, sono così ferito e arrabbiato che potrei…lasciamo perdere. Poi arriva questo pivello (Renzi) che tratta il parlamento a pesci in faccia, va in pantaloncini in Senato. E quasi riesce dove io ho fallito”. Qui il mio pathos raggiunge i massimi livelli: “Questo pivello mi fa talmente arrabbiare…”. Proprio così, ormai parlavo di politici di sinistra in prima persona, ero una di loro, ero la sintesi di tutti loro, importante come Berlinguer e anche più grande. E naturalmente ero un mago: pronunciavo le parole Expecto Patronum e tutto intorno si faceva più felice. Non mi rendevo conto che stavo regredendo. Il mio essere un grande politico mi aveva permesso di bloccare una mozione cinquestelle in Consiglio, era a proposito dei fuochi d’artificio. La consigliera pentastellata proponeva di vietarli del tutto perché spaventavano gli animali. Ora, il divieto totale ci pareva eccessivo, quindi la consigliera di maggioranza E. Servo mise a punto una contro-mozione che limitava l’uso dei fuochi in particolari luoghi e in presenza di “soggetti deboli”. Noi votammo favorevole a questa mozione, ma subito dopo ci toccò votare quella dei Cinquestelle. Avevamo deciso di astenerci, ma io non ero d’accordo. Presi la parola e dissi: “Invito il mio gruppo a votare contro in quanto questa mozione è palesemente contraria a quella che abbiamo appena votato”. Questa volta era diversa da tutte le altre che avevo parlato in Consiglio, la mia voce uscì chiara e forte, senza traccia di emozioni.  Sentii Andrea (l’altro consigliere) sussurrare a mio padre: “Votiamo contro, sennò questa ci fa finire di nuovo sul giornale”. E così votammo contro su mio suggerimento.

Sapevo a cosa si riferiva Andrea con quella frase. Si riferiva al mio primissimo Consiglio, quando avevo combinato un mezzo casino, perché non avevo capito ancora come funzionava la faccenda. Soprattutto volevo salvare i cervi, ma di questo vi dico dopo. Avevo annotato sul mio diario tutto di quella sera. Faceva un caldo infernale, ma erano tutti tirati a lucido, davanti a me fra i banchi della maggioranza c’erano il belloccio numero uno e Tommaso di cui vi dico dopo (mi fece l’occhiolino subito, credo stia ancora manovrando per farmi entrare in maggioranza). Avevo avuto un brivido lungo la schiena quando il presidente (ve lo raccomando, è un personaggio che meriterebbe un romanzo a parte) aveva detto: “Inizia il Consiglio Comunale”, ma io avevo capito “Bianco in moto”, che è la frase che l’arbitro di scacchi dice alla partenza di una partita. Ero su una scacchiera, ero l’Alfiere della scacchiera, ma non avevo fatto i conti con le varianti verdi. Era una questione delicata: una serie di terreni edificabili avrebbe dovuto tornare agricola. Al comune erano pervenute ventiquattro richieste in tal senso, ventitré erano andate a buon fine, ma una no, l’importantissima zona industriale dismessa. Avevamo deciso che avremmo votato tutte le ventiquattro richieste separatamente e avremmo votato contro all’ultima. Purtroppo, questa possibilità non si stava avverando. Anche se il consigliere Ocfa ci stava tendendo una mano, avrebbe votato a favore della votazione, ma noi tre siamo stati troppo stupidi per cogliere l’occasione. Il presidente ci concesse una pausa. Andrea e papà non so che facessero durante il break, mentre io, invece di architettare strategie, avevo ceduto agli ormoni ed ero fuori a parlare con belloccio numero due (da non confondersi con belloccio numero uno). Insomma, al rientro in aula avevamo dovuto votare tutto insieme, Andrea annunciò voto contrario e io andai in panico, i miei neuroni fecero consiglio comunale d’emergenza e feci come mi pareva. Per la cronaca, quando rividi belloccio numero due a gennaio 2017 pensai fosse solo un sacco di patate. Insomma, mi ero astenuta sulle varianti verdi senza dirlo alla sezione di partito. Sbagliato, sbagliatissimo. Erano uno dei pezzi forti del nostro programma elettorale. Tant’è che mi telefonò Andrea mentre ero a fisioterapia, dicendo che dovevo dichiarare alla stampa che mi ero sbagliata a votare, che la mia era stata una semplice svista. “Col cavolo” ribattei “io non mi sono affatto sbagliata. Una richiesta non è andata come volevamo noi, ma 23 sì. Io ho soltanto votato secondo matematica”

“A volte la politica conta più della matematica” replicò Andrea, stizzito.

Il giorno dopo i giornali locali titolarono: Faida famigliare sulle varianti verdi, figlia vota diverso dal padre. E sotto la mia dichiarazione: “io ho votato secondo matematica, loro secondo direttive di partito”. A sentire mamma ne ero uscita bene, mentre Andrea e papà facevano la figura dei fessi, ma io imparai a non votare diverso, senza dirlo alla base e agli altri consiglieri. L’ex consigliera, CX., dopo aver letto i giornali disse che la mia poteva essere la posizione ufficiale del partito, se solo l’avessi discussa.

Riproduzione riservata ©