Disability Pride, il senso di essere mille in corteo

Lo scorso 15 aprile si è svolto a Torino il primo Disability Pride. L’associazione Luca Coscioni e altre 17 associazioni del territorio (piemontese o nazionale) erano già in fermento da mesi. Una delle rappresentanti della cellula Coscioni locale, nonché militante di Possibile, Miriam Abate, stava affrontando (non da sola, certo) difficoltà burocratiche tali che cambierei il nome del partito in “Impossibile”. Sì, la formazione di sinistra di Civati, so che non ve la ricordavate. In contemporanea ha aderito il PD che ha mandato una delegazione di Giovani Dem con bandiera, e poi tutta una serie di bandiere senza colore politico. Mentre se c’erano leghisti o destrorsi vari cercavano di mimetizzarsi fra la folla. Non sia mai che gli elettori di destra pensino che i loro rappresentanti possano essere accostati a Coscioni, Cappato e a quella parola che inizia con euta e finisce con nasia (perché che altro potrebbero chiedere gli handicappati in piazza?). Poi c’è un altro fatto evidente: la manifestazione si pone in evidente continuità col Pride Lgbtq+ e tutta quella
gentaglia che manda a ramengo il paese praticando l’armocromia. Una manifestazione blasfema, dove viene dissacrata la Vergine Maria e uomini nudi ballano sui carri, baciandosi fra di loro. La verità è che noi disabili e le persone queer, sebbene con situazioni diverse e discriminazioni diverse, siamo più vicini di quanto si possa immaginare, mortificati per il fatto di essere noi stessi.

Per tutti questi motivi (che il presidente Cirio non vi spiegherà mai in questi termini) la Regione Piemonte ha negato il patrocinio fino a poche ore dalla manifestazione. Salvo, poi, tornare sui propri passi, perché si sono accorti della figuraccia a cui andavano incontro e che, a mio parere, hanno fatto comunque. La Vergine viene dissacrata veramente quando qualcuno (più spesso qualcuna, più spesso le vecchiette, ma anche qualche giovane) le rivolge preghiere per Miriam, senza nemmeno conoscerla, per il solo fatto di averla vista per strada. C’è sempre questa idea del normodotato che deve importi dall’alto la sua “perfezione”. Vogliono che invidiamo il loro corpo (anche se hanno l’ernia e la sciatica), vogliono imporci il loro modo di muoversi, il loro stile di vita. E questo modo di pensare, per le persone senza un’educazione civica e sessuale sufficiente, è fare “inclusione”. Non pensano che magari a noi piace così il nostro corpo,
molti di noi non sono arrabbiati con la vita se non a tratti. Un giorno mi ricordo che qualcuno a cui in realtà voglio bene disse a un mio amico, lì vicino a me, che avevo un bellissimo cervello, peccato per il resto. Quale resto, scusa? A me il mio corpo piace, devo raddrizzare la schiena e fare in modo che i muscoli siano attivi, certamente, ma per il resto sto una favola.

Posso rassicurare il Presidente sul fatto che il diritto al suicidio assistito è stato nominato pochissimo. Il nostro è stato un corteo di vita, quello che chiediamo è di vivere il più serenamente possibile, essere notati nei momenti di vera difficoltà (quando vogliamo emanciparci e fare la nostra vita fuori dalla nostra famiglia d’origine) ed essere lasciati in pace nel resto. Che senso ha farci saltare dieci minuti di fila in posta e poi costringerci a trafile burocratiche assurde per cambiare gli ausili? E poi ci sono momenti in cui non vogliamo notati, appunto. Non vogliamo essere continuamente considerati eroi per il solo fatto di fare la spesa. Considero più eroici di me i miei coetanei che vanno a vivere da soli senza pensione di invalidità. Ma a loro questo appellativo non è concesso, loro sono
semplicemente dei fannulloni se a trent’anni non hanno i mezzi per andarsene. Questo è molto discriminatorio nei confronti delle persone normodotate.

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