Il primo dei disturbi della razionalità è rappresentato dal trionfo del bigottismo.
Quanto sono carini nelle loro incoerenze e, tutto sommato, quanto sono appetibili (questo il dato preoccupante) per le masse – cumulonembi di ignoranze mal represse – quando si travestono da incorruttibili baluardi in difesa delle italiche tradizioni?
Le novelle madri, italiane e cristiane del resto, sono state abili a crogiolarsi nelle derive programmatiche interne al centrodestra degli anni ’00. Molto facile fagocitare le altrui pochezze, sbandierando odio dai palchi della nuova Italia – tutta casa, dichiarazioni di guerra e religione obbligatoria a scuola – vomitando bile ad ogni apostrofo. L’esercizio di potere è sempre il solito: sottolineare in termini populisti ciò che separa il “nostro” dal “loro”, lo scopo – antico quanto il 900 – é demonizzare l’altro, il diverso. Cucire confini, creare barriere sociali per alimentare divisioni. Un nuovo vecchio modo di fare politica – in fondo – che trova campo fertile fra i nostalgici di un qualcosa che, pur morto nel ’45, non ha mai abbandonato la scena, ridestatosi al centro dei suoi neo-rigurgiti – fra mistificazioni e palazzi – senza mai disdegnare le antiche vocazioni squadriste volte a seminare violenze e destabilizzazione. Il serbatoio elettorale delle nuove destre, oltre a poggiare sugli spasmi liberticidi di un’ideologia mortificata a suo tempo dal fronte democratico, é amplificato da nuovi gracidanti consensi, facili da intuire se ci si addentra nel contesto comunicativo di Mediaset degli ultimi 20 anni, che si possono ascrivere tranquillissimamente al livore delle massaie – effetto collaterale del bombardamento da gossip e disinformazione – che popola i salottini pomeridiani di Barbara D’Urso oppure alle ridanciane pulzelle – lobotomizzate dai flash di un trono televisivo – a caccia di una volatile notorietà da firma-copie in centro commerciale. Le trasmissioni della sera poi rasentano il nulla cosmico, vuote di contenuti ma gonfie di luoghi comuni, trainate da Giordano e Del Debbio. L’onda lunga dei “realities” e alcune tendenze di programmi come “Le Iene” o “Striscia la Notizia” non sono propriamente innocenti ed hanno contribuito, in menti poco allenate a discernere la realtà, alla formazione di un sentimento popolare che fa del successo facile e del giustizialismo la propria pietra filosofale.
Metodi comunicativi trasversali che, oltre a godere del vastissimo retroterra sottoculturale fornito dal tubo catodico negli anni, colpiscono anche le piattaforme 3.0 uniformando la platea virtuale attraverso le battenti campagne condotte via Twitter e via Facebook.
Del resto, per quanto riguarda Giorgia, cosa ti aspetti da chi negli occhi custodisce il gelo delle ceneri di un MSI trasformatosi in Fiamma Tricolore poi AN per accentrarsi e spartirsi le briciole dei ricchi banchetti di Forza Italia. Nel tempo, la fine ingloriosa che tutti conosciamo seguita da una rinascita, sotto la sigla FDI che potremmo ribattezzare – in ottica delle sue nuove funzioni e aspirazioni – Movimento “Social” Italiano.
A cavalcare il malcontento giunge puntuale anche Matteo, capitano e fondatore dell’ordine dei padri “nutellisti”. Un personaggio che dell’incoerenza ha fatto il suo cavallo di battaglia, cambiando faccia per ogni spiffero. Da comunista padano a intrepido secessionista, grande sostenitore della famiglia tradizionale che ama farsi ritrarre mentre bacia la fidanzatina in rosticceria. Grande puritano nell’indire crociate contro la cannabis light, altrettanto abile nello stringere amicizie con chi è destinato a scontare condanne per spaccio. Domatore di ogni vociare che, a passo di slogan, con argomentazioni da sagra del brasato trasuda populismo da ogni poro. Una propaganda continua tesa a normalizzare l’odio razziale e scatenare ansie di prevaricazione, senza preoccuparsi di sposare le cause reali di un paese che sprofonda in un disagio sociale senza precedenti. In questo turbine anti-culturale, le nuove destre, ci si cullano dolcemente a suon di invettive contro la nocciola turca e minacce di velata carità cristiana.
Ecco che dunque – pur non essendo portatori sani di un messaggio di fratellanza universale – incollano i temi di un’eterna campagna elettorale agli stenti – da accogliere con tutta la carica simbolica del caso – di una famigliola di sfollati siriani di oltre 2000 anni fa che per prima – stando a quanto documentano le scritture – sembra abbia sofferto le storture di un’emarginazione destinata ai diversi. La sacra famiglia, sminuita nei suoi valori fondativi, viene ora utilizzata per veicolare un messaggio che abborda coscienze in preda a nevrosi da svuotamento.
Il trittico su cui verte il nutritissimo dibattito è formato da un pargolo tutt’altro che ariano, figlio di una madre bambina e di un “vecchio” falegname. “Vecchio, se si considera il fatto che in quel tempo, a 37 anni circa, eri quasi pronto ad avviarti verso l’ultima curva”. Figure non propriamente congeniali – nella vita che trascende dalle simbologie da esporre in sala da pranzo – per un popolo (quello dei porti chiusi) che muove i suoi rantoli nello sconfinato vuoto affettivo – per nulla umano – dei nostri giorni.