Dialoghi immaginari contro la paura: da Dostoevskij a Leopardi

Soprattutto le crisi interiori, servono. Sono necessarie per comprendere chi siamo; sono fondamentali per capire quanta salvezza vogliamo regalare al nostro animo. Implacabili da domare, prima o poi ritornano e non possono essere disattese, lasciate sopite eternamente. Sarebbe come chiedere ad un’aquila in picchiata di fermarsi momentaneamente per rispettare il rosso di un semaforo. Inutile sottolineare che c’è chi decide di affrontarle per rivendicare la propria beatitudine umana e chi preferisce sterzare per spegnere quell’incendio convulso che giace chissà dove, dentro di noi. In una sorta di irrealtà mi piacerebbe intervistare -intimamente parlando – chi è riuscito a dare un senso più profondo ai momenti di crisi, siano essi apparentemente dettati da fatti esterni o da “drammi” intimi.

Se potessi comunicare con Fëdor Dostoevskij, gli chiederei esattamente in che modo sia riuscito a sfidare l’angoscia nei momenti più bui o meglio come abbia fatto ad abbracciare le proprie paure ed a avere coraggio. Sono sicura che Dostoevskij mi risponderebbe con le prime pagine del suo capolavoro “Le notti bianche”“Era una notte incantevole, una di quelle notti che succedono solo se si è giovani, gentile lettore. Il cielo era stellato, sfavillante, tanto che, dopo averlo contemplato ci si chiedeva involontariamente se sotto un cielo simile potessero vivere uomini irascibili ed irosi. Gentile lettore, anche questa è una domanda proprio da giovani, molto da giovani, ma che il Signore la ispiri più spesso all’anima! (…) Fin dal mattino un’improvvisa angoscia cominciò a tormentarmi; ad un tratto ebbi l’impressione che tutti volessero abbandonarmi e allontanarsi da me. (…) Fu una sensazione terribile, rimanere da solo e in preda ad un profondo sconforto. Vagai per tre giorni interi per la città, senza capire minimamente cosa mi capitasse”.

La risposta, paradossalmente, arriverà proprio vagando tra il cielo stellato e le strade deserte e isolate di San Pietroburgo, abbandonate dalla popolazione in fuga verso la campagna. Insomma, proprio quando il giovane protagonista, sarà capace di immergersi in quello che è il motivo dell’angoscia interiore e di conseguenza solo e soltanto a seguito di un continuo intimo divagare senza sosta.

In questi giorni paradossali – Conte ci ha appena detto che stiamo vivendo un periodo storico simile e/o peggiore a quello del secondo dopoguerra – è necessario tenere ben salda la nostra lucidità e non sfociare nella delazione immotivata. Sempre più spesso dalle cronache giungono all’opinione pubblica notizie di chi rivendica l’integrità dell’osservanza alle regole nel peggior modo possibile. Salerno ne è vittima come tutti: farmaciste umiliate e aggredite per avere fatto il loro lavoro; segnalazioni che nascondono da dissapori atavici; gente che espettora al supermercato o in fila al bancomat; settentrionali che rivendicano le proprie scoperte sugli “scellerati” meridionali; morti di serie “a” e morti di serie “b”.

Fermiamoci tutti!

Il mio non è solo un appello al non procedere come dei forsennati lungo le strade; il mio è un appello a danzare nella tempesta e a non avere timore di farlo. La paura, se incanalata bene, è il motore per ogni passo in avanti. So perfettamente che in questa situazione, noi non ne siamo direttamente i primi artefici, ma per favore non cediamo l’empatia a qualche legge darwiniana, francamente rivisitata anche male! 

Continuando sul discorso immaginario, se tornassi in Italia e mi mettessi a “chiacchierare” con Vittorio Arrigoni, sono sicura che mi direbbe: “Cara lettrice, anche se l’umanità scarta l’ipotesi di restare umani, tu fallo lo stesso”. Il giovane freelance che scriveva da Gaza per “Il Manifesto”, ucciso a soli 36 anni, ci credeva davvero al valore di “Restare umani”; “restiamo umani” è un adagio che è diventato preghiera, una manifestazione emblematica di una lotta che disarma l’odio con la sola potenza evocativa delle parole. Una resistenza pacifica, un riarmo dell’amore, per vivere la vita in modo assoluto, apprezzandone ogni bellezza, nonostante i “nonostante tutto”. Di guerre Arrigoni ne ha vissute davvero tante. Di bimbi distrutti ne ha guardati negli occhi davvero troppi ed è per questo che probabilmente, attualmente, posso solo continuare ad immaginare le trame di un dialogo con lui.

“Io non credo nei confini, nelle barriere, nelle bandiere. Credo che apparteniamo tutti, indipendentemente dalle latitudini e dalle longitudini, alla stessa famiglia, che è la famiglia umana“. Queste le parole di Vittorio prima di morire.

“Homo homini lupus”, letteralmente “l’uomo è un lupo per l’uomo”. Questa la riflessione del filosofo Hobbes per indicare che l’uomo difficilmente riesce a spingersi verso il suo simile in virtù di un amore naturale e incondizionato, perché la natura umana è fondamentalmente – tranne eccezioni – egoista. Seppur profondamente veritiera, mi piacerebbe abbracciare tesi del tutto diverse e che spingono di conseguenza, l’uomo alla cooperazione tra la specie, che inducono quindi ognuno di noi a non vedere l’altro come un potenziale nemico da mandare al rogo, ma come un simile con cui superare una profonda paura o crisi, a seguito di uno svisceramento più intimo.

Mi piacerebbe credere ancora alle parole di Vecchioni quando canta, settantenne dal balcone di casa propria, tra la barba incolta e un volto sempre più deperito, la sua “Sogna Ragazzo”: “Io conosco poeti che spostano i fiumi con il pensiero e naviganti infiniti che sanno parlare con il cielo. Chiudi gli occhi, ragazzo e credi solo a quel che vedi dentro“.

Non credete a chi pensa che questa sia la fine del mondo, perché la deriva più grande sta nel pensare che la resa mentale è alle porte.

Se discutessi con lo scrittore Emilio Salgari, mi imbatterei ad esempio, nel dialogare con il più rigoglioso e assiduo viaggiatore virtuale. Apprezzato da rivoluzionari illustri, come ad esempio da Ernesto Guevara, lo scrittore veronese, a partire dalla fine del 1800, ha regalato ad un pubblico di lettori mondiale, 82 romanzi e oltre 100 racconti. Da “Sandokan” al “Corsaro nero”, i suoi scritti sono stati apprezzati da grandi e piccini perché questo uomo così prolifico è riuscito ad evadere dalle retrovie dei propri drammi personali, attraverso l’immaginazione. Il creatore de la “Tigre di Mompracem” viaggiò pochissimo, ma fu un portentoso studioso e divoratore di atlanti e dizionari, grazie ai quali inventò più di 1.300 personaggi, basando ogni suo racconto su scrupolosi approfondimenti geografici. A tal proposito Salgari disse: “Scrivere è viaggiare senza la seccatura dei bagagli”.

Il corsaro nero

Inoltre sarebbero tante le domande che porrei anche ad Ettore Schmitz in arte Italo Svevo.

Signor Svevo, lei cosa pensa della società contemporanea in barba ad una sorta di periodo bellico? Quanta “senilità” esiste oggi giorno?

Mi rivolgo – seppur nella mia mente a lui -perché sono sicura che Svevo sia stato in grado di superare crisi storiche e da queste, quelle interiori che ne derivano, quando nel 1919 ha messo nero su bianco il romanzo “La Coscienza di Zeno”.

Attento dissacratore della natura umana e di tutte le fragilità che ne derivano dalle falle della I guerra mondiale, Svevo sfrutta la psico analisi, ma soprattutto la scrittura come forma di investigazione interiore e di reale riflessione sulle ossessioni dell’uomo che da anti eroe bloccato nelle proprie inettitudini e paure, riesce in un modo tutto suo, a superare quel blocco dopo innumerevoli fallimenti.

La Coscienza di Zeno

In un risveglio quotidiano che apparentemente si ripete in un loop continuo, preservare la speranza è come portare un figlio in grembo nonostante fuori sia un mondo pieno di insidie – oggi più che mai.

“Non sono mai stato tanto attaccato alla vita” gridava Ungaretti, durante una nottata di veglia, passata vicino ad un compagno deceduto. Questa la metafora letteraria che più si addice al momento in cui tutti versiamo, in cui ogni speranza sembra deteriorarsi quotidianamente.

Inappropriato, invece, il termine “pessimista” per definire una forte spinta emotiva verso la bellezza del cosmo, da parte del poeta Leopardi ne “La ginestra” scritta in un momento dolorosissimo, legato agli ultimi sospiri dell’autore degli infiniti, prossimo alla prematura dipartita; chiara è la volontà dell’autore di superare le discordie e di unirsi tramite le “social catene”. Un mirato e instancabile sussulto per schierarsi a favore della “vitalità della vita”, attraverso la ginestra, un fiore che mortale come noi, riconosce l’inevitabilità della morte, ma che persevera nel donare all’universo il suo profumo, unica sua dote e di conseguenza unico suo immenso contributo alla bellezza della vita, quella che spesso distrattamente dimentichiamo che esista.

La ginestra
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